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scheda di Martinetto, V., L'Indice 1993, n. 7
Con i testi in prosa riuniti nel volume di Guanda e scritti da Lorca fra il 1924 e il 1928, il lettore italiano possiede una tessera finora mancante per valutarne la figura di scrittore e soprattutto per verificare quanto sia labile, nell'opera del poeta, il confine tra i generi. La poesia, il teatro e la prosa di Lorca appaiono fusi in una medesima poetica che è quanto di più lontano da ogni forma di intellettualismo, poiché fondata sulla freschissima e ingenua gnoseologia dell'infanzia. Parlando con quello stupore vitale e con la fede "propria soltanto del poeta, del bimbo o del cretino puro", lo scrittore può permettersi di associare e dissociare idee, forme e colori con la libertà più assoluta. "Propagandista del sentimento poetico", come si autodefinisce in queste pagine, Lorca sembra capace di conoscere le cose solo trasmigrando in esse, vivendole liricamente. Quella di creare immagini fortemente trasgressive della logica, sembra essere in lui una capacità innata e non un retaggio surrealista. C'è infatti riluttanza da parte della critica spagnola nel riconoscere la partecipazione di Lorca a tale stagione, malgrado si sia tentati di rintracciare in questi dialoghi e narrazioni un'eco dell'esperienza della scrittura automatica di Breton e di Soupault. Semmai, insieme al curatore, si può definire "assurdismo andaluso" questo lorchiano abbandonare la musa per andare a svegliare il 'duende' o demone che "dorme nelle più remote stanze del sangue", questo biologico scrivere più veloci della propria memoria: "Lasciamoli sulla superficie i nostri occhi, come i fiori acquatici, e noi, rannicchiamoci dietro di loro, mentre in un mondo oscuro galleggia la notte".
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