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Ha senso tradurre, a distanza di oltre un secolo, un saggio che da tempo è considerato, più che superato, propriamente "sbagliato"? Tra il molto che varrebbe la pena di riproporre all'attenzione del lettore odierno di scritti di storia dell'arte, bisogna proprio pubblicare, addirittura in forma di libro autonomo, un articolo fuorviante e le cui tesi sono state alla lunga abbandonate dall'autore stesso? Certo, ha senso; certo, bisognava proprio ripubblicare l'Amico di Sandro di Berenson, uscito in due puntate sulla rivista francese "Gazette des Beaux-Arts" (da poco defunta, tra l'altro: non certo un buon indice di salute per la nostra disciplina) nel 1899 e poi ripubblicato in inglese due anni dopo in un volume di saggi vari dello stesso Berenson (il celebre The Study and Criticism of Italian Art). Si tratta infatti di un testo a suo modo paradigmatico, ideale per capire un certo momento della storia dell'arte, in Europa, al passaggio tra XIX e XX secolo, e più in particolare il metodo di lavoro di Berenson. Berenson incarna perfettamente le difficoltà e le contraddizioni della disciplina in questa sua fase: da un lato, accogliendo entusiasticamente il metodo positivista di Giovanni Morelli, lo studioso (di origine lituana ma sostanzialmente di raffinatissima cultura angloamericana) pretendeva di conferirle uno statuto inoppugnabilmente scientifico; ma allo stesso modo, come perfettamente sottolinea Patrizia Zambrano nel suo intrigante saggio introduttivo, si muoveva sostanzialmente nel solco degli esteti vittoriani, primo fra tutti Walter Pater. Era infatti a questa temperie culturale che risaliva la celebrazione della presunta grandezza di Botticelli, della "linea" come massimo fine dell'arte e del primato di Firenze (ma anche, per esempio, del "mistero" di Leonardo": la più sdrucita cultura di massa si serve ancora, senza neanche saperlo, di quelle antiche categorie, deprivate ormai di ogni squisitezza ed esclusività): questa celebrazione, come spesso accade, aveva avuto anche una precisa ricaduta sul mercato internazionale dell'arte, del quale Berenson era un indiscusso protagonista, in vero non sempre in positivo.
In breve: Berenson individua un nucleo di opere, sostanzialmente omogenee, per lo più attribuite a Botticelli o soprattutto a Filippino Lippi, e le considera opera di un artista autonomo, legato a Botticelli ("Amico di Sandro", appunto), da non confondere però con Filippino Lippi, del quale parrebbe naturale vedere in questo nucleo la fase giovanile: come in effetti è: si veda la recente monografia della stessa Zambrano e di Jonathan Nelson (Electa, 2004; cfr. "L'Indice", 2005, n. 3). Il problema, secondo Berenson, è che Filippino Lippi, quale emerge dalle sue più tipiche opere mature, come gli affreschi della cappella Carafa in Santa Maria del Popolo a Roma o di quella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze, è pittore molto meno aggraziato, più enfatico e, in una parola, "barocco".
Sentiamo Berenson. Dopo aver detto: "Ciascuno dei dipinti che abbiamo esaminato, preso separatamente potrebbe forse dare l'impressione di essere solo il tassello di un problema enigmatico da risolvere in rapporto a Botticelli o a Filippino. Ma studiandoli insieme ne ricaviamo la percezione di una personalità artistica distinta dalla loro, non dotata né profonda come quella di Botticelli, e certamente più fascinosa ma meno austera di quella di Filippino", quindi, dopo un significativo paragone con Watteau, continua: "Abbiamo visto però che se fossero davvero di Filippino [i dipinti presi in esame], andrebbero considerati tra le sue prove giovanili. E abbiamo evitato di cadere in questa assurdità realizzando con chiarezza che sono opera di un artista distinto, un artista che ha elaborato il proprio stile con relativa rapidità ma gradualmente. Nonostante le rassomiglianze esistenti tra Filippino e l'Amico, i loro rispettivi intenti sono diversi. Di base Filippino era un artista diligente, quasi accademico, con una forte tendenza verso quello che gli Italiani chiamano 'Seicentismo', un'accesa espressione sentimentale e soluzioni formali barocche. Non c'è nulla di tutto ciò nell'Amico che, sia nel registro serio sia in quello allegro, è un 'quattrocentista': nulla in lui fa già pensare a Sodoma, nulla in lui prelude alla più tarda pittura bolognese". Qui sta il punto: Berenson non ritiene possibile il passaggio verso l'acceso patetismo della maturità di Filippino dal corpus filobotticelliano, appunto "sanamente" quattrocentista della fase giovanile, che deve pertanto spettare a un altro artista, di cui, non troppo convintamene (come nota Zambrano) tenta anche di proporre un nome anagrafico, l'altrimenti ignoto Berto Linaiolo pescato tra le pieghe del Vasari. Ma contano altre cose: ad esempio l'attributo "secentista", inteso in accezione negativa, che vanta una certa storia che sarebbe utile, una volta, veder tracciata, anche se un abbozzo già si trova nel saggio introduttivo di questo volume (anche Burckhardt, tra parentesi, considerava "barocco" Gaudenzio Ferrari, a causa della "fantasia troppo potente"): e però anche l'osservazione davvero intelligente dell'importanza di Filippino per Sodoma e soprattutto per i bolognesi (soprattutto Aspertini, come chiarirà Roberto Longhi oltre trent'anni dopo).
In realtà Berenson, in questa operazione critica, oltre a difendere una certa idea delle gerarchie artistiche (la lineare e purista Firenze quattrocentesca cara al gusto anglosassone), si pone anche un obiettivo polemico: la New History of Painting in Italy (1864-1866) composta da Giovanni Battista Cavalcaselle con la collaborazione dell'inglese Joseph Archer Crowe. La spregiudicata e antiletteraria ricognizione territoriale di Cavalcaselle era agli antipodi della concezione in fondo "dilettantistica" (nel senso buono) di Berenson, e prima ancora dell'attribuzionismo puro e astorico del venerato Giovanni Morelli.
Il punto stabilito in questo articolo sarà infine superato proprio da un geniale protegé di Berenson, grazie alle ricerche compiute per la fondamentale monografia su Botticelli (1908), che, come ancora annota Patrizia Zambrano, "con il suo minuzioso lavoro sul campo e con l'intreccio metodologico sistematico di opere, documenti, fonti esattamente il percorso aborrito da Berenson aveva dato esiti straordinari". A malincuore lo stesso Berenson dovrà abbandonare il suo "Amico", cercando peraltro di far apparire l'eliminazione di questa fittizia personalità, comunque "a useful hypothesis", come frutto della maturazione del suo proprio pensiero, più che come la presa d'atto di un ineludibile progresso della storiografia.
Lo spaccato culturale che esce fuori da questo saggio, tra critica d'arte, connoisseurship, letteratura, mercato, è insomma dei più affascinanti e istruttivi, e ci restituisce un contributo che, proprio per essere completamente sorpassato, si mostra nella sua esemplarità, anche metodologica. Difficile quindi non leggerlo senza un sorriso, non certo di superiorità, peraltro; il piacere è aumentato dalla felice soluzione grafica del libro.
Edoardo Villata
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