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Da: "Narro la triste storia di Amleto, / Spirito inquieto più del consueto. / Quando il regnante padre dileto / emise l'ultimo sospir dal peto, / era ancor giovine il povero Amleto, / Principe inquieto più del consueto" - a: "C'è qualcosa di marcio nel regno di Danimarca. / Essere o non essere, questa è la domanda: / In cielo e in terra ci sono più cose, / Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia: / C'è una divinità che dà forma ai nostri piani / per quanto rozzamente li abbozziamo: / Se questa è pazzia, c'è del metodo in essa". Da Nizza e Morbelli ( Due anni dopo. Continuazione de I Quattro Moschettieri , Eiar, 1937) a Tom Stoppard ( Dogg's Hamlet , 1979) passando per Jules Laforgue, Mark Twain, Margaret Atwood, Petrolini, Totò, Leo de Berardinis e molti altri, prima e dopo: una godibilissima filiera di echi, allusioni, rifacimenti, citazioni consce e inconsce, recuperi eleganti e storpiature goliardiche di memorabili passi shakespeariani, che Manferlotti ci dispensa da un suo attivissimo panopticon , irrispettoso al punto giusto di canoni e gerarchie, ma con appropriata inclinazione alle sinergie verbali.
Vi convergono splendori e opacità, vere e proprie allegorie della lettura e semplici richiami intertestuali, lasciando sotto traccia, ma evidenti, i confini tra parodia colta e parodia povera, spesso inconsapevole - e alla fin fine tra il pubblico che parla, legge, studia nella lingua di Shakespeare, e col quale il "pallido prence " siede per così dire quotidianamente a tavola, e il pubblico che ne ha sì ascoltato le parole ma dette da altri, in altri, remoti contesti, e che vi può accedere solo per orecchiamenti sommari. Da una parte alcuni testi italiani, esemplari nella parodia carnevalesca e dissacrante, nello spunto decontestualizzato, negli sgarbi e sgorbi deliberati, nei motti sublimi ridotti al rango di ciarla, di sentenziosità popolare - Totò-Romeo e Lia Coppelli - Giulia: "Giulia: '(...) Lei pensa solo a me? (...) ma lei è libero?' / Totò: 'Beh, libero in un certo qual senso, cosa vuole, tutti siamo schiavi del bisogno (...) / C'è del marcio in Danimarca? Mah!" ( Chi si ferma è perduto , Sergio Corbucci 1960); dall'altra una produzione parodica sempre orientata da una ricezione consapevole e non semplificabile, che deve comunque mirare a un significato complessivo e rinnovato.
La citazione di Stoppard qui sopra è caratteristica di quest'ultimo atteggiamento, perché non si limita all'accumulo di battute da scene e parti diverse della tragedia, ma le organizza secondo quello che assomiglia a un piano segreto e a una nuova logica, e illude lasciando intravedere un possibile esito "impegnato", per poi smentire ogni attesa, e riprodurre il senso del vuoto - ma senso complesso, filosoficamente e drammaturgicamente maturo. È il primo genere di riscrittura che produce titoli come Shakespeare's Works in one-and-a-half hour , che tiene il cartellone a Londra da non so quanti anni; ma è il secondo che genera Gertrude talks back , la lettera che Gertrude scrive al figlio per mano di Margaret Atwood, per restituirgli tutta la sozzeria che quello pensa di lei e di Claudio: "Non parliamo del 'porcile'. In realtà non sono cose che ti riguardano, ma ci tengo a precisare che cambio le lenzuola due volte la settimana, e cioè molto più spesso di quello che fai tu, se debbo giudicare da quella porcilaia che è il tuo appartamento a Wittenberg!"; o anche The Skinhead Hamlet di Richard Curtis, testo composto da tutte le possibili variazioni - ovvero alla ripetizione continua - del termine fuck .
La distinzione non è ovviamente rigorosa: ci sono anche fra gli "'stranieri" quelli che costruiscono parodie complesse, rivolte a una ricezione "colta": qui in primo luogo sarà il caso di citare Leo de Berardinis, e quanto Manferlotti giustamente ne scrive: "Per lui [come per Enzo Moscato] si può parlare di parodia nella misura in cui la parziale desacralizzazione del modello è funzionale, più che a una imposizione del comico, a una ridefinizione del tragico". Che è poi il segno dell'opera teatrale veramente moderna.
Franco Marenco
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