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Quanti bambini ancora, la sera prima di coricarsi, hanno accanto la mamma che li accompagna nella preghiera della notte? In quante scuole ancora, quando entra l’insegnante, il capoclasse grida: “Attenti!”, o agli alunni, prima di iniziare le lezioni, si fa recitare una preghiera? Non so, ma queste cose probabilmente non esistono più. La mia generazione del ’42 è una delle ultime che può ricordare i riti e le consuetudini che vigevano negli anni rievocati in questo romanzo della memoria. Esiste ancora “il quaderno di brutta”? Certamente è scomparso “il pennino che gratta sul foglio, incespica, s’impunta, lascia andare uno spruzzo di goccioline nere”. Oh, se me le ricordo, le macchie d’inchiostro, “le patacche”, che mi cadevano sulla pagina! Gli anni visitati da Mazzantini, attraverso il suo personaggio autobiografico Claudio Marcantoni, sono anteriori ai miei e si snodano nel bel mezzo della retorica fascista, impegnata a rievocare la grandezza e la gloria della Roma antica. Mazzantini non tralascia di sottolineare questo aspetto che attraversa tutta la sua infanzia. Si veda la visita che la scuola organizza, a Roma, al Sacrario della Nazione: “Una serie di scosse scendeva dentro, suscitando ognuna un lungo brivido che scuoteva dalla nuca ai talloni.” E ancora: “dal ritmo lento del canto si sprigionava il fascino torbido di una virile religione di coraggio e di morte.” In questo modo il fascismo cercava, con una accurata scenografia di riti, di preparare la gioventù di allora. Leggete che cosa il maestro Paris dice ai ragazzi: “Tutti i più grandi artisti della Nazione hanno contribuito alla realizzazione di questo sacrario. E quelli che lì montano la guardia sono ministri, accademici, scienziati, artisti, tutta la nobiltà più pura del nostro popolo, che hanno chiesto e ottenuto l’onore di vegliare in armi su questo santuario del nostro eroismo.” È una scrittura precisa, la sua, ordinata, senza sorprese, senza particolari accensioni, se non nella parte finale, e tuttavia risoluta e penetrante in quel suo gesto ri
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