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Ho dato 2 voti solo per la prima storia (quella di Abelardo ed Eloisa). Per il resto non vale proprio la pena di acquistarlo.
Ad un Premio Nobel non occorre molto per fare un libro di successo, soprattutto di incassi. Basta che esca prima di Natale e il nome dell’autore è già una garanzia per le vendite. Quanto al resto poco conta. Che Fo non sia un grande narratore è cosa già troppo nota per discuterne; la sua arte (grandissima, beninteso) sta tutta nel saper tradurre la parola in gesto, nella performance. Ma la scrittura richiede altre risorse: lo dimostra il fatto che il suo racconto più riuscito in questa raccolta (o forse l’unico), quello della domatrice di leoni, non è altro che uno straniante monologo interiore bell’e pronto per essere messo in scena; qui il destinatario è un assiepato pubblico di un teatro, non il lettore solitario. Gli altri racconti sono cosa di poco conto al confronto: sia quello sull’eretica Mainfreda, un soggetto storico così affascinante che forse avrebbe meritato di più di qualche smilza paginetta. Nelle pagine di Fo lo sghignazzo resta ancorato ad un revisionismo storiografico (la controstoria come risarcimento dei vinti) ormai demodé. E mentre l’illustre lombardo la verità storica la cerca insieme al lettore, facendo dell’umiltà e della ricerca le sue guide, il Nobel ce l’ha già in tasca e ce la sciorina ad ogni passo. Così, l’ultimo racconto, incentrato sui modi della recitazione nel teatro greco, termina con una supponente frase secondo cui i professori nelle scuole non solo non insegnano questi argomenti ma non li conoscono neanche. Forse un po’ più di umiltà non guasterebbe: magari il Nobel scoprirebbe che a scuola si studiano anche i testi di Luciano di Samosata e non di Luciano di Samotracia, come scrive in una pagina del libro (riportata anche nel risvolto di copertina!) con una gustosa e inconsapevole crasi fra lo scrittore alessandrino e la celebre Nike. Dove andrà a finire la scuola italiana se anche i Nobel fanno strafalcioni? Debito formativo per tutti, allora.
Recensioni
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"L'amore e lo sghignazzo" del titolo vanno davvero di pari passo tra le pagine di questo nuovo libro di Dario Fo: l'amore per la parola, le sue magie e le sue innumerevoli declinazioni, che da sempre l'attore e scrittore sa plasmare con grande abilità e maestria, e lo sghignazzo della satira e dell'ironia, che rendono così unici e penetranti i suoi testi e i suoi proverbiali monologhi.
Qui le doti del grande affabulatore rivivono in una raccolta di racconti che spaziano dal tenebroso Medioevo al rutilante mondo del circo, dalla Cina favolosa ai coturni del teatro greco classico. Davanti al lettore sfila una galleria di personaggi unici, estrosi e originali, protagonisti di gesti, a volte estremi a volte provocanti e persino folli, che ci riconducono a una storia "alternativa", lontana dalle retoriche ufficiali, fatta di uomini e donne al di sopra delle righe, che spesso hanno agito al di fuori delle regole del loro tempo. Tra questi c'è Eloisa, voce narrante del primo brano della raccolta, un monologo in cui ricorda in prima persona la sua celeberrima storia con Abelardo. Le parole della donna vibrano della passione e della malinconia della sfortunata amante ma non è difficile cogliervi in sottofondo l'ironia seppur rispettosa ma pur sempre pungente e dissacrante del consumato istrione. Ironia che domina anche lo sfogo della "scannafiere", irascibile domatrice di leoni del circo e il racconto di Guglielmina, figlia del re di Boemia, protagonista di un curioso episodio miracoloso nella Milano della fine del Trecento, tra giganti che si trasformano in angeli scintillanti ed eretici che vengono arsi sul rogo. Lo sberleffo del popolano la fa invece da padrone nell'amara vicenda del cinese Qu, un "mariuolo frottolone", d'animo semplice, che vive alla giornata e che, "pur assomigliando a un comunista giusto come una rana assomiglia a un coccodrillo", diventa un perfetto capro espiatorio della repressione contro i ribelli rossi, vittima ideale di una giustizia fasulla e parziale.
A chiusura della raccolta, quale omaggio ai grandi maestri dell'antichità, suoi ispiratori, Dario Fo intraprende un viaggio nel teatro della Grecia classica, svelandoci aneddoti e particolari poco conosciuti dell'attività di autori e attori. Dietro le quinte scopriamo così la magia degli effetti scenici creati dagli abili macchinisti greci, l'abilità degli attori nel ricreare voci maschili e femminili, il trasformismo imperante che richiedeva fulminei cambi d'abito sul palcoscenico. Ma quel che a Dario Fo interessa ricordare è soprattutto la capacità dei teatranti satirici greci di divertire senza rinunciare a denunciare anche gli aspetti e i personaggi meno nobili della società del loro tempo, facendo persino nomi e cognomi. Come Archiloco che si scaglia contro Epilone L'Arconte , " ladro che ha venduto l'appalto per il restauro delle vecchie cloache a un imprenditore incapace e criminale" oppure Aristofane che denuncia l'avidità dei mercanti, che "ammazzerebbero zanzare per fare cappotti alle mosche". La Grecia che traspare dalle loro pagine non è quella "ufficiale", raccontata dagli storici della tradizione, come Erodoto, Tucidide e Plutarco ma non è meno veritiera, così come il mondo e la storia raccontata dagli insoliti testimoni scelti da Dario Fo.
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