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2013: se Chandor sforna "All Is Lost", un capolavoro sull'archetipo Uomo-barca-mare con una sceneggiatura costellata di sfide ambientali devastanti il corpo e l'animo, il romano Di Biagio, classse '89, debutta con un film sul medesimo tòpos, altra splendida opera ma dall'approccio opposto e complementare. Stavolta l'Uomo è una moltitudine identitaria, una pluralità schizoide e conflittuale dove ogni protagonista rappresenta un volto incarnato delle nostre caleidoscopiche sfaccettature, della soggettività prismaticamente in lotta con se stessa, d'un'antropologia psicologica basata sul caos dell'Io interiore scisso (in italiano cf. "Stati caotici della mente. Psicosi, disturbi borderline, disturbi psicosomatici, dipendenze", a cura di Luigi Rinaldi, Raffaello Cortina, 2003). Il taglio d'antipsichiatria, col suo tipico ribaltamento ("scuffiamento" filmico) che pone in discussione il distinguo fra normalità istituzionale e disagio della mente, è reso pure a livello espressivo tramite il succedersi secco e violento di piani-sequenza, steadycam, scenari epici, inquadrature liriche, svolte feroci, frangenti d'angoscia, oasi precarie di serenità ed equilibrio. Non c'è un happy ending poiché ancor prima non c'è un epilogo se non quello fornito dalla vita vera: diaspora e dissolvenza, proseguimento "in solitario" del proprio tragitto, rotta, traiettoria, percorso durante il tempo concesso a ciascuno di noi. Memorabile. Ps.: il regista ha dichiarato di rifarsi a Nolan, Refn e Tarantino. Per fortuna non poi così tanto. Pps.: su Wikipedia la voce dedicata a quest'esordio, forse il miglior film nostrano dell'anno scorso, era giudicata "di dubbia enciclopedicità" finché non abbiamo provato a dimostrare il contrario.
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