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Un periodare aulico ,magnifico;un lavoro di cesello che lascia basito,attonito, rapito.Leggere un libro di tal fatta,é un regalo che ti é concesso pochissime volte nella vita.Leggetelo e sarete rapiti in un gorgo di piacere estremo ed inusitato.Che altro dire.UN CAPOLAVORO ASSOLUTO!
Recensioni
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recensione di Roat, F., L'Indice 1996, n. 8
La seconda prova narrativa di Meldini, in veste di romanzo, sottintende una riflessione sulla scrittura come pratica consolatoria ed esorcistica nei confronti del malessere esistenziale, sull'espressività come "antidoto della malinconia", sull'esercizio letterario quale ripiegamento introspettivo che può divenire surrogato di ogni slancio vitale, sull'arte in quanto vita vicaria.
La storia è calata in un Seicento al tramonto - il secolo della Ragione ma anche dell'inquietudine barocca e dell'atrabile saturnina - su cui incombono "funeree cortine di umor nero". Gioseffo, il protagonista del libro, è un anziano speziale da tempo assorbito dalla stesura di un trattato sui rimedi contro l'ipocondria, di cui egli si dichiara affetto sin dalla giovinezza. L'opera è dedicata a un cardinale a cui Gioseffo invia lettere su lettere nella speranza sempre disattesa d'una qualche risposta, ma un'accidia fatta di "scontentezza vaga" non consente allo speziale di condurre avanti la stesura del testo, anche perché una serie di eventi incresciosi verranno a turbare la quiete necessaria a tale compito. La figlioccia di Gioseffo, Matilde, poco dopo avergli confessato di essere affetta dal mal d'amore, i cui sintomi debilitanti lo rivelano "fratello di latte della malinconia", verrà chiusa in un convento per impedire la tresca con un nobile scapestrato.
Così una plumbea atmosfera intessuta di efferatezze (tra un delitto impunito da una parte dello spasimante e il suicidio di Matilde), presagi oscuri (un essere bicefalo fa la sua apparizione in città e la facciata della cattedrale è visitata da uno sciame di farfalle) e futili dispute accademiche fra sedicenti letterati si consuma il dramma speculare della coppia melanconica Matilde-Gioseffo. E se in un ritorno di fiamma di fierezza, questi ha infine il coraggio di dire in faccia all'impassibile cardinale come trovi ingiusta la disattenzione dei potenti verso gli umili, il suo grido di dolore risuona come l'ammissione della propria sconfitta, giacché dopo avere gettato alle fiamme la bozza del trattato egli troverà scampo alla malinconia soltanto nel gesto estremo di levar la mano su di sé.
Quindi il racconto si chiude nell'impossibilità a trovare antidoti a quella vedovanza - per dirla con Starobinski -, a quel deserto di senso in cui è costretto ad abitare l'animo del melanconico. Così lo spazio del romanzo si contrae serrandosi intorno alla figura centrale, al protagonista unico (ribadiamo il ruolo speculare e accessorio, di doppio al femminile, della deuteragonista). E rivelando una geometria fabulatoria estremamente controllata, di grande levità e mai incline a compiacimenti barocchi, mostra chiaro il proprio paradigma narrativo fatto di due piani alternati: quello principale tutto d'interni del discorso introspettivo di Gioseffo, e quello della più ampia scenografia degli accadimenti esterni e dei personaggi laterali. Piani e figure intersecantesi che servono a Meldini a colorare un disegno altrimenti costretto al monocromatismo del grigiore espresso dalla viduitas ipocondriaca di Gioseffo e della problematica ossessiva: scrittura uguale malinconia (o scrittura come coazione malinconica). Ma allora le vicende marginali, gli accadimenti esterni risultano un artificio a ricreazione del lettore affinché attraverso una trama variegata venga allontanato il pericolo inflativo di un'insistenza sul tema dominante.
Dunque, essendo Meldini sin troppo abile nel fabbricare un intreccio accessorio, i prestiti manzoniani o feuilletonistici (la giovane insidiata dal nobilotto, la costrizione a farsi monaca, le soperchierie dei potenti) sono appena citazioni o strizzatine d'occhio a mascherare (è opportuno ribadire il ruolo determinante di maschere, apparizioni prodigiose e macchinari scenografici nella costruzione di questo libro) o alleggerire una meditazione altrimenti eccessiva sulla scrittura come improbabile farmaco. Va da sé che Meldini intende esser solo cronista, non già solutore di malinconie, e nel romanzo è fin troppo esplicita la sottolineatura del limite di siffatti antidoti letterari.
Anzi qui alla parola non è dato alcun potere taumaturgico. Essa, oltre a non sanare le afflizioni dell'anima, rischia semmai di deludere chi cerchi in lei approdi consolatori. Il testo può solo testimoniare, tratteggiare sul foglio la pena senza volto del melanconico, le ombre oscure in cui egli si dibatte senza rimedio. E forse le pagine migliori sono quelle dove con l'eleganza d'una prosa sorvegliata viene descritto il mondo fantasmatico di Gioseffo, che abita una solitudine affollata di presenze spettrali aggrappandosi ai classici e a tentativi sempre più fiacchi di scrittura. O dove, in chiusa di volume, con partecipe pietas vengono narrate le ultime ore dello speziale e la quiete ritrovata nell'attimo estremo in cui egli si emancipa finalmente dalla malinconia attraverso uno stoico gesto di rifiuto per "quel colpo di vento gravido di polvere e mosche, che è la vita".
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