Per lungo tempo, il concetto di crescita è stato fondamentale per le scienze sociali. L'urbanistica non ha fatto eccezione: molti degli strumenti di cui si è dotata rispondono principalmente ai problemi e alle questioni a essa connessi. Ciò è valido anche per situazioni che con la crescita apparentemente hanno poco a che fare, come la dismissione di aree industriali o il recupero di quartieri degradati. Pur non trattandosi di espansioni urbane, gli interventi di rigenerazione hanno spesso avuto come obiettivo quello di intercettare nuovi cicli economici, prevedendo la costruzione di nuovi edifici e nuove infrastrutture. Ma che dire di quei casi in cui a declinare non sono le aree urbane, ma intere città e regioni? A guardare territori come la Rust Beltamericana, nascono numerosi dubbi sul modo di affrontare processi di dismissione così estesi da assumere tratti quasi apocalittici. Tali questioni sono trattate da Alessandro Coppola in un testo che, a cavallo tra saggio e reportage, riesce ad affrontare con tono leggero l'attuale tempo di crisi, cominciato in questi luoghi ormai da diversi decenni. Con la crisi del sistema produttivo fordista e la chiusura di molte fabbriche, a Youngstown come a Detroitè iniziato un processo inesorabile di abbandono. Spesso sono i quartieri più deboli quelli maggiormente colpiti, dove, parallelamente alla contrazione demografica, a rarefarsi sono anche le attrezzature e i servizi, lasciando condizioni sociali ancor più drammatiche e aprendo spazi in cui s'insinuano nuove popolazioni marginali e attività illegali. Per evitare questo processo di sostituzione al ribasso e per salvaguardare gli ormai esigui valori immobiliari, l'unico mezzo che finora si è rivelato efficace sono le demolizioni, che in queste città sono all'ordine del giorno. Se da un lato si sono dimostrate necessarie e in qualche misura imprescindibili, dall'altro, le demolizioni sono anche il simbolo tangibile di una sconfitta. Sia perché mostrano l'incapacità di riusare un patrimonio edilizio e infrastrutturale, il quale viene rapidamente abbattuto per finire in discarica; sia perché materializzano il fallimento delle politiche attuate per rimettere in moto la crescita, spesso ispirate ai dogmi del liberismo. Per contrastare la dismissione, infatti, la prima reazione è stata quella di muovere le leve tradizionali dell'economia, nel tentativo di rianimare l'industria o attirare nuovi investimenti. Tuttavia, gli sforzi per agganciare il turismo e il terziario hanno dato ben pochi frutti. Di fronte all'inevitabilità del declino oggi si sta facendo strada un nuovo atteggiamento che non solo lo accetta in tutta la sua evidenza, ma addirittura inizia a considerarlo un'opportunità. Alcune esperienze nate in questi territori, infatti, tentano di esplorare logiche diverse dalle usuali. Una di queste è sperimentata da Buffalo reuse, un'impresa che rifiuta le demolizioni tradizionali per applicare su larga scala la tecnica della decostruzione, cercando di recuperare dagli edifici dismessi quanto più possibile. Il processo richiede tempo e cura, e quindi maggiori costi, ma permette di riutilizzare dal 30 all'80 per cento dei fabbricati. Considerando il risparmio di nuovi materiali e la riduzione dei costi di smaltimento, che spesso ricadono in gran parte sulla collettività e sull'ambiente, le maggiori spese della decostruzione vengono ampiamente ammortizzate ed è il sistema usuale ad apparire del tutto irrazionale, con il suo ampio consumo di risorse e la simmetrica produzione di rifiuti. Altre esperienze cui il libro dedica ampio spazio sono quelle legate all'agricoltura che hanno trovato un terreno di sperimentazione nei lotti dismessi della Rust Belt, lontano dalle pressioni della crescita economica. Orti e fattorie urbane sembrano dare una soluzione a problemi diversi: dalla povertà della dieta americana, dove i quartieri più poveri spesso si configurano come veri e propri "deserti alimentari", fino ai problemi ambientali causati dall'urbanizzazione e da un sistema agricolo industrializzato, fondato sulla monocultura e sull'allevamento intensivo, che fa largo uso di combustibili fossili. L'agricoltura urbana rappresenta un caso paradigmatico perché intorno a essa si sono strettamente saldate le retoriche dell'autosufficienza, del localismo e della sostenibilità, che oggi sembrano essere forti coagulanti delle azioni individuali e collettive. Visti da tale prospettiva, questi piccoli movimenti non appaiono come casi isolati, ma riescono a prefigurare una direzione alternativa, i cui lineamenti sono chiaramente percepibili anche se non del tutto nitidi. La cifra comune può essere riassunta come un passaggio da una crescita lineare a una circolare. La prima sembra simile a un vecchio disegno di Superstudio, in cui la città è rappresentata come un nastro a produzione continua, che incessantemente consuma risorse lasciando una scia di detriti e rovine. La seconda è invece ispirata ai cicli naturali, in cui ogni processo non lascia rifiuto o residuo alcuno, all'insegna di un nuovo metabolismo urbano, capace di riconciliare habitat umani e dinamiche naturali. Una sorprendente rifioritura dell'utopia, secondo Coppola: "Visioni del futuro spesso ingenue e irrealistiche, ma che in territori espulsi dalla corrente principale della storia vengono a rappresentare forze potenti di trasformazione delle società locali". Il dubbio principale è se queste utopie avranno la forza di concretizzarsi in qualcosa di duraturo, o se, piuttosto, riescano a prosperare solo grazie ai bassi valori immobiliari. Gli orti sono paradigmatici a proposito. In molti casi, primo tra tutti quello di New York, l'agricoltura urbana è stata utilizzata come mezzo per ridare valore a quartieri degradati, essendo quindi destinata a venire rimpiazzata da altre attività non appena il mercato immobiliare avesse ripreso vigore. Solo la tenacia delle persone coinvolte ha permesso, in alcuni casi, la loro sopravvivenza. In altre città, invece, le sorti dell'agricoltura urbana sono state migliori e sono riuscite a creare alcune realtà convincenti, anche sotto un profilo economico. Le implicazioni di tutto ciò sulle forme dell'urbanizzazione sono affrontate nell'ultimo capitolo, in cui Coppola delinea due modelli che potrebbero nascere nella Rust Belt, l'uno basato sulla rarefazione, esito quasi spontaneo dell'attuale processo di abbandono, in cui la città si andrà mischiando alla campagna in un ideale di jeffersoniana memoria; l'altro guidato da demolizioni e densificazioni selettive, al fine di costruire un arcipelago urbano con una maggiore razionalità interna. Emanuel Giannotti
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