Gli aquilani sono immersi tuttora in una così angosciante tragedia che al ricordo probabilmente impallidiscono i guasti provocati dai disordini che culminarono nella sommossa del 27 febbraio 1971: causa scatenante ne fu la problematica scelta del capoluogo della Regione. Il ricorrente dissidio con Pescara sembrava non aver trovato soddisfacente soluzione. Una folla rabbiosa assediò sedi di partito e dilagò in abitazioni di politici. La sede del Pci subì una vera devastazione, perché dal "partito" ci si attendeva un atteggiamento più coerente con le promesse. Come capro espiatorio della mancata difesa della sede e della rovinosa incursione fu additato il segretario regionale: Claudio Petruccioli. Che in quel giorno, per giunta, si trovava a Pescara. A quarant'anni di distanza, il dirigente dà alle stampe una ricostruzione confortata da pezzi giornalistici coevi e avvalorata da testimonianze, dove alterna il taglio della memoria alla passione dell'indagine storico-politica, sì da portare alla luce, in un limitato universo, avvisaglie di problemi ben presenti lungo i cupi anni settanta, in un'Italia sconvolta da violenze e particolarismi. In queste pagine, che hanno il garbo di una scrittura pertinente e scrupolosa, risalta l'attitudine inquisitoria di ascendenza stalinista del Pci. Sullo sfondo i mali di un paese afflitto da lacerazioni drammatiche: la Calabria del "boia chi molla", l'emersione di un aggressivo terrorismo. Ma il tempo ha reso giustizia: ripensata oggi, la definizione dei ruoli delle due città, malamente equivocata in quel frangente, appare tutt'altro che artificiosa. "Il Tempo" non impiegò molto ad accorgersene, se già il 5 marzo vi si leggeva: "La soluzione è stata contrastata fino all'ultimo minuto e si è conclusa con l'affermazione dei principi delle tesi aquilane. In fondo, L'Aquila cosa chiedeva? Di essere capoluogo di nome e di fatto. E L'Aquila risulta capoluogo di nome e di fatto". Ma ciò che era di immediata evidenza per un foglio reazionario non fu registrato da chi voleva soffiare sul fuoco, taluni magari per ragioni di interna lotta partitica. "L'idea che mi sono fatto scrive Petruccioli quarant'anni dopo con ironico minimalismo è che quelli che stavano dentro la federazione ebbero il dubbio di aver finito essi stessi col 'tradire' la città, pur senza volerlo e senza rendersene conto". L'annotazione non serve a scusa postuma. Del resto la militanza di Petruccioli è stata punteggiata da incidenti diventati proverbiali. Lui ora, con la saggezza che si può permettere uno che ha varcato la soglia dei settanta, ascrive gli spiacevoli imprevisti la rivolta dell'Aquila, la pubblicazione da direttore dell'"Unità" di un balordo falso a proposito del caso Cirillo sono i due episodi più chiacchierati al caso che domina sovrano e smentisce aspirazioni o calcoli. Dopo la vicenda abruzzese ecco il trasferimento a Milano, e dopo il disguido al "giornale" il seggio parlamentare, poi, a compenso della mancata riconferma, il posto in segreteria nazionale, in chiusa la Bolognina. Fino alla presidenza Rai: che meriterebbe un libro a parte: su altri più ravvicinati sconvolgimenti e non meno turbolenti, anche se felpati, assalti. Roberto Barzanti
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