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Leggendo Arab jazz di Karim Miské l'impressione netta è quella di un prodotto pensato e confezionato con chiarezza, troppa. Man mano che si va avanti nella lettura compaiono, infatti, tutti i giusti ingredienti ed il prodotto si cucina fino alla inevitabile e desiderata conclusione. Ecco la ben assortita coppia di investigatori: un giovane bretone figlio di comunisti sessualmente represso e la sua collega ebrea non praticante e incline alla trasgressione; un perfetto capro espiatorio maghrebino, svitato testimone oculare, divoratore di gialli e in analisi intermittente; il quartiere multietnico, un tempo in armonia e ora turbato dai mille fanatismi; la combriccola di ragazzi e ragazze del quartiere, uniti dalla musica nell'adolescenza e poi divisi dall'arroganza religiosa; il fanatismo religioso che si trasmuta nel male assoluto, in una dementissima trasmutazione del bene nel male; lo stesso scontro tra bene e male sotto le insegne dell'ordine, preso di peso dalla tradizione del polar francese. Insomma tutto sembra fatto (scritto) per piacere a un pubblico di sinistra, libertario, laico, raffinato e insofferente allo spirito del tempo. Magari Karim Miské non ha affatto pianificato un operazione di marketing, forse nemmeno l'editore ci ha mai pensato, e il fatto che il libro abbia vinto nel 2012 il Grand prix de littérature policière è puramente casuale. Ma è appunto il caso, un po' di sano, sporco, caso che manca a tutta la vicenda che troppo spesso si inerpica per sentieri inverosimili pur di tener fede alla lista della ricetta. Già, ma al multietnico cuoco Miské chi ha dato la ricetta? Voto 3 / 5.
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