Architettura Open Source: manifesto aperto, plurale e partecipativo. Caratteri, questi, di eterogeneità e dinamismo che ben oltre il coro di voci coinvolte (a fianco infatti delle firme dell'architetto Carlo Ratti e del ricercatore Matthew Claudel si orchestrano spunti e riflessioni provenienti da un ambizioso collettivo di collaboratori e curatori aggiunti) contraddistinguono tanto il processo di scrittura del testo quanto i principali riferimenti ed argomentazioni. Premessa al libro è l'editoriale pubblicato sul numero speciale della rivista "Domus" di giugno 2011, dove il modello produttivo dell'open source viene consacrato a "paradigma emergente" esteso all'architettura, declinando un nuovo metodo inclusivo e interattivo (sedicente democratico) di progettazione e definizione dello spazio: "OSArch sostituisce l'architettura statica, fatta di forme geometriche, con processi dinamici e partecipativi, network e sistemi informatici. I suoi sostenitori riconoscono una chiara dominanza del codice sulla materia, dei sistemi relazionali sulla composizione architettonica". Seppure sia ormai riconosciuto come ricorrente, in particolare per la disciplina architettonica, il tornare ciclicamente a interrogarsi attorno al presupposto del proprio operare problematizzandone ruoli e strumenti specifici, i toni enfatici, a tratti prorompenti, dell'editoriale intendono irrompere con forza sulla scena, forti anche di inflazionate parole chiave, quali apertura, partecipazione, collaborazione, trasparenza, ormai spesso e maliziosamente impiegate come strumento di captatio benevolentiae. Quindi, nell'era della digitalizzazione e della connettività globale, che cosa s'intende con il termine progettazione open source, e quali possono essere le sue implicazioni reali nel processo di costruzione dello spazio fisico? Come spiegano gli autori, la famiglia di sistemi operativi Linux, il motore di ricerca Mozilla Firefox, il servizio di rete sociale Facebook, così i più recenti laboratori di fabbricazione digitale Fab Lab, hanno sancito nel giro di un ventennio un cambiamento radicale nel modo di socializzare e interagire, altrettanto rintracciabile nelle pratiche d'organizzazione di lavoro e produzione. Due i presupposti: accessibilità, quindi proprietà aperta e circolazione gratuita delle idee attraverso l'introduzione di licenze libere, e sviluppo collaborativo, ossia possibilità di interagire e implementare quelle stesse in modo potenzialmente illimitato; partecipazione, dunque condivisione e coinvolgimento attivo dei diversi interlocutori, aspetti questi, nello specifico del progetto di architettura, che richiamano un retaggio troppo autorevole per essere taciuto dalla narrazione, pur sintetica ma puntuale, del libro: dal metodo scientifico e atemporale del pattern language, ideato dal matematico e architetto Christopher Alexander negli anni sessanta, alle ricerche di Nicholas Negroponte e il Soft Architecture Machine Group del Mit, tese a risolvere entro un sistema cibernetico la difficoltà propria dello scambio di conoscenze, e, ancora, dall'analogia organica della cellula abitativa, biologicamente organizzata e organizzabile, alle tanto additate derive della pianificazione degli anni settanta. Niente di più di un selezionato excursus della storia recente, fondamento e premessa, per gli autori, della vera chiave di volta dell'attuale proposta di metodologia "aperta"; riscattando mancanze e fallimenti del passato, il World Wide Web consentirebbe oggi di sfidare, finalmente su scala globale e complessiva, l'autorità e il monopolio sinora indiscusso delle regole di mercato, dando nome a un diverso potenziale movente dell'economia: la "desiderabilità sociale", la "gratificazione interpersonale". Nello specifico, grazie all'interconnessione permessa da internet e alla riscrittura della proprietà intellettuale, l'incentivo alla crescita può non essere di natura esclusivamente monetaria ma avvalersi di un istinto e di un'azione collettiva di ordine culturale, aprendo così le porte allo sfruttamento congiunto del lavoro del tecnico e della creatività eterogenea e imprevedibile del dilettante (sia questa di origine obbligata o volontaria). Open Architecture Network e Wikihouse sono alcuni esempi, e tra i primi, di come questo orientamento, per gli autori "ecologia della condivisione", possa traslarsi nella pratica architettonica. Fedeli ai dogmi contemporanei della velocità e del risparmio, tali piattaforme digitali connettono in modo istantaneo e gratuito professionisti e utenti facilitando il dialogo interdisciplinare, consentendo lo scambio e l'appropriazione libera di nozioni e competenze e, più importante, coinvolgendo e impegnando nel processo decisionale, progettuale e costruttivo, gli utenti finali. Si tratta di nuove potenzialità che si presentano come sfida ai tradizionali attori, strumenti e processi dell'architettura, o siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione dal basso che inneggia alla ghigliottina di una professione ormai da più parti accusata di aver rifuggito la propria più intima ragion d'essere, incapace di far fronte all'ingente peso e complessità delle responsabilità? Crediamo lecito pensare che il rischio di semplificare problemi e interrogativi cui la realtà sottopone, o ha sottoposto chi prima di noi si è cimentato nel mestiere, sia qui sin troppo presente, soprattutto se si ripercorrono momenti critici, di un secolo appena concluso, con la precisa volontà di trovare immagini efficaci e risposte risolutive. Ecco, infatti, che al maestro moderno, ricordato nel tentativo messianico di risolvere entro un progetto di architettura omnicomprensivo una precisa visione sociale e politica, viene debolmente contrapposta l'anonimità dell'architettura vernacolare, dimostrazione sì positiva di arte collettiva ed etica che sopravvive alla storia ma che per ovvie ragioni di esistenza disciplinare non verrà mai decretata unica vincitrice. La soluzione cui si approda nel testo è dunque una nuova definizione di architetto, un architetto corale, non più ideatore né inventore di forme bensì mediatore, orchestratore di competenze tecniche e bisogni collettivi, nonché dei tempi e dei modi della loro interazione. Tanti gli architetti-teorici che hanno operato misurandosi con i confini d'azione imposti dal proprio mestiere, talvolta variandoli, talaltra contaminandoli, tuttavia, come sostiene Vittorio Gregotti la questione che oggi si è fatta particolarmente acuta e al tempo stesso distruttiva per l'identità disciplinare è l'esistenza o meno di un punto interno, «di un fondamento su cui misurare le distanze diverse, nelle diverse condizioni storiche, non tanto da quei confini (d'azione) e dalle loro mutazioni, quanto dalla sostanza stessa della propria condizione presente e delle sue possibilità di agire in quanto modificazione necessaria». Se Gregotti crede e sostiene l'esistenza e l'essenzialità di tale punto interno, forse questo libro, privilegiando l'azione sulla sostanza, inconsapevolmente, ne sancisce il definitivo smarrimento. Maddalena Grasso
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