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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2014
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Secondo una suggestiva definizione che l'autore riprende da Michel Foucault, rielaborandone la plasticità intellettuale e la plausibilità, l'archivio antiebraico è un "repertorio di immagini, luoghi, ragionamenti, meccanismi concettuali, quella biblioteca di testi (
) che hanno costituito l'antiebraismo come pratica discorsiva", permeabile allo spirito del tempo e, in quanto tale, capace di sopravvivere alla prova dei tempi medesimi, trasformandosi in una tradizione negativa, in sé speculare, ancorché rovesciata, a quelle positive. Se le seconde si danno sulla base dell'affermazione, la prima si conferma sulla scorta di una negazione, quella che dice che gli ebrei non sono esseri umani ma piuttosto umanoidi dalla natura demoniaca. Partendo da questa premessa, Levis Sullam rilegge le traiettorie dell'antisemitismo in quanto parte integrante delle culture, e in particolare di quella europea. Il pregio del volume, di veloce lettura anche se informato a una scrittura impegnativa, risiede nella capacità di sintetizzare la dialettica tra mutamento e persistenza di un risentimento profondo, che è ben lontano dall'essere una semplice malattia morale, ossia una devianza, costituendo invece una delle traiettorie del sentire moderno. Difetta tuttavia, ancorché evocata come sottotitolo, una più puntuale riflessione sul linguaggio e quindi sulle parole dell'antisemitismo della nostra epoca. Insomma, a rigore di metafora, Levis Sullam ci aiuta a costruire una grammatica, ma al lessico dobbiamo ancora cercare di dare forma per parte nostra. Puntuale è allora il rimando a Victor Klemperer, tra gli autori colui che, con La lingua del Terzo Reich, più si avvicinò a tale obiettivo.
Claudio Vercelli
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