Un certo senso comune storiografico si è a tal punto appiattito sulla centralità del Rinascimento come fattore di due pilastri identitari della civiltà figurativa europea, naturalismo e razionalismo, da impedirci di riconoscere serenamente che il vero secolo chiave di questo processo è stato non il XV, ma il XIII. Nelle arti plastiche e pittoriche, la lunga parabola che si apre con Chartres e si chiude con Giotto vede infatti la scoperta della natura e l'espressione di una ritrovata centralità dell'essere umano incrociare l'alba degli stati nazionali e la crescita delle università, la ricerca scientifica e la fioritura delle grandi letterature volgari (dove un senso dell'amore e del dolore salda la poesia cortese alla predicazione degli ordini mendicanti) e l'elaborazione di sistemi filosofici per descrivere i quali non a caso si ricorre spesso alla metafora della cattedrale. Cattedrale che, a sua volta, si lega alla grande novità della lingua architettonica e figurativa internazionale di quel secolo, ossia il gotico. Quell'opus francigenum (non tanto un'estetica, quanto un certo modo di costruire) che nasce nell'Ile-de-France già verso il 1150, e nel Duecento conquista (quasi) tutta l'Europa superando non poche resistenze e dando vita a parecchi "gotici alternativi" non conformati supinamente al modello franco-settentrionale. Ma come la cattedrale non esaurisce ricchezza e varietà delle architetture del momento, pur rappresentandone il laboratorio più innovativo e complesso, così il Duecento europeo non può essere valutato sul solo metro delle cattedrali "alla francese". Il volume di Alessio Monciatti, cattedratico (all'Università del Molise) della brillante generazione dei quarantenni, si propone come un manuale colto e selettivo ma al tempo stesso di respiro ampio, in linea con il metodo del progetto einaudiano di cui il volume è parte. Si apre, pertanto, non con statue-colonne o archi rampanti, ma con la descrizione delle meraviglie di Roma di Maestro Gregorio. Proprio il fascino dell'antico, unito a una grande sensibilità per la tradizione bizantina, alimenta quel nobile naturalismo classicista che si è voluto definire "stile 1200" e che è rappresentato in sommo grado sia dalla statuaria di Sens e Santiago de Compostela, sia, soprattutto, dall'oreficeria formidabile di Nicola da Verdun. L'autore diffida delle cesure nette e convenzionali tra un secolo e l'altro (per cui il racconto inizia intorno al 1180 e finisce poco oltre il 1300), ma rileva come gli anni a cavallo del fatidico 1200 segnino davvero lo scarto verso un naturalismo che parte dal mondo greco e romano per costruire un linguaggio affatto nuovo, calato nella dialettica di un mondo che stava cambiando e che edifici e immagini hanno concorso a cambiare in misura determinante. In questa storia, sviluppata in prospettiva internazionale ma con un occhio di riguardo all'orizzonte italiano, c'è ad esempio molta più pittura e non soltanto su vetro o su pergamena di quanta, crediamo, ne avrebbe considerata un punto di vista inglese o francese. Il discorso viene così sviluppato in senso diacronico attraverso sette capitoli dedicati ai movimenti classicisti del primo Duecento; alla codificazione di un linguaggio plastico-architettonico francese che da Chartres a Reims viene esportato con grande pluralità di accenti; alla geografia artistica italiana nella prima metà del secolo, da Benedetto Antelami a Federico II; alle sorti internazionali del gotico rayonnant sul 1250 e poco oltre; all'Italia di secondo Duecento e alla sua rivoluzione figurativa, tra Cimabue e i Pisano; al contesto europeo cortese e prezioso di fine secolo, dove emerge una considerazione umanistica di figure come quella di Giotto, che domina anche l'ultimo breve capitolo, sorta di conclusione e di ponte verso altre storie. Seguono cinquantasei schede di opere-cardine, accompagnata ciascuna da una tavola a colori, che approfondiscono temi e percorsi di lettura, ma pongono anche il serio problema di come rendere visibile un patrimonio tanto ricco e variegato attraverso un'inevitabile campionatura centellinata. Se si considera che le illustrazioni intercalate al testo, tutte in bianco e nero, sono soltanto ventisette, ci si rende conto che selezionare così poche immagini per una storia di immagini è stata sfida davvero improba. Un libro del genere non poteva trasformarsi in un atlante, anche per ragioni di costi, ma inevitabilmente necessita di molti altri libri illustrati da tenere a portata di mano: magari partendo dall'ottima bibliografia ragionata. La scelta è stata tuttavia praticata con originalità intelligente, se consideriamo che vi sono rappresentate tutte le arti, ma senza attribuire il primato all'architettura, visivamente poco illustrata. Il Duecento narrato da Monciatti è dunque più articolato e cangiante, e magari spiazzante, di come a volte lo percepiamo. Dipanandosi tra Europa e Italia, il racconto traccia una storia aggiornata della via mediterranea al gotico e supera il suggestivo ma anacronistico paradigma di Cesare Gnudi, che vedeva Giotto e Arnolfo raccogliere il testimone di un umanesimo naturalista che la Francia avrebbe portato alla massima espressione verso il 1250, per poi diluirlo in grazie e manierismi. L'autore tiene un passo equilibrato, rifuggendo da ogni finalismo e mostrando come ogni contesto culturale vada giudicato sulla sua pietra di paragone e nella rete delle sue relazioni: così c'è molta Italia nei capitoli incentrati sull'Europa e molta Europa in quelli italiani. Per disegnare una mappa che fosse pure un canone ha dovuto certo selezionare argomenti e monumenti, ragionando per problemi e aree geografiche omogenee. Ma così ha reso un poco meno policentrica la ricchissima Europa duecentesca, invero limitata a un certo Occidente: se il mondo bizantino è visto in genere come interlocutore (ed è quasi assente quello islamico), Balcani, Est europeo e Scandinavia quasi non vi sono rappresentati, e la stessa penisola iberica vi è molto ridimensionata. Ma queste scelte sono sostenute da una lettura criticamente ponderata e aggiornata. Monciatti coglie con efficacia e chiarezza gli addentellati con la storia politica e sociale, la filosofia e la letteratura, facendo anche storia dei modi di produzione e di ricezione: e con molte aperture sulla "critica" coeva, da Villard de Honnecourt a Ristoro d'Arezzo, che concorse a fare dell'artista un intellettuale e dell'arte uno strumento di conoscenza. Ma al tempo stesso tiene saldamente al centro del dibattito i rapporti formali e concreti tra le opere, riconoscendo i movimenti di individui e di idee oltre schematismi semplicisti. Ora, insomma, abbiamo un nuovo e valido strumento per considerare che alle sorgenti della moderna Europa non ci sono soltanto Francesco d'Assisi e Tommaso d'Aquino, ma pure Hugues Libergier e il Maestro di Naumburg. Fulvio Cervini
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