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Uscito in Francia poco dopo la morte dell’autore, il libro racconta di come scrittori e artisti accolsero la rivoluzione russa, dell’entusiasmo soprattutto nel periodo che la precedette, della loro convinzione che arte e rivoluzione dovessero avere un unico scopo: rompere con il passato. Tra questi, Aleksandr Blok, galvanizzato dalla rivoluzione, nelle violenze che seguirono sentì “il rumore del vecchio mondo che cade, la musica della rivoluzione” o Majakovskij, definito da Pasternak “uno spirito rivoluzionario del tutto autonomo”. Tra i critici, invece, ricorda Bunin (premio Nobel 1933) che la definì una “follia collettiva”, e le riserve di Gor ´kij e Bulgakov. Passando agli anni successivi, molte pagine sono dedicate a Noi, romanzo di Zamjatin quasi dimenticato, in cui è narrata la vita di uomini numeri, negata l’equazione tra felicità e libertà e rimosso l’io a favore del noi: la poesia stessa “è un servizio dello Stato (...) è utilità”. Noi costituisce la prima distopia “suscitata dall’apparizione dello stato totalitario”. La seconda parte è dedicata a Malevic del quale si ripercorre l’esperienza artistica e biografica: dagli anni di Vitebsk, in cui teorizzò il suprematismo, teso a cogliere forme che, svincolate dal significato, “non designano alcunché”, a quelli successivi improntati a un crescente disincanto. Quando agli artisti si chiese di servire la rivoluzione politica, Malevic venne giudicato anarchico, “francamente controrivoluzionario”. Percorre l’intero saggio il giudizio di Todorov sulla rivoluzione che “s’impone quando i mezzi legali per ottenere cambiamenti sono insufficienti” ed esige il capovolgimento “delle norme che regolano la vita sociale: uccidere (...) diventa perno un atto meritorio, purché si tratti di combattere il nemico”. E si chiede “se la rivoluzione, simile in questo alla guerra, non sia un mezzo talmente potente che fa dimenticare i propri fini, per quanto desiderabili questi possano apparire”. Ricorda che anche le nostre democrazie possono essere “capaci di altre derive paragonabili a quelle dei paesi totalitari”. Un ruolo importante gioca dunque l’arte nel porre ostacoli all’uniformazione del pensiero: è questo “il trionfo dei fragili eroi del nostro racconto”.
Recensione di Marta Vicari
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