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Tutti i formati ed edizioni
SARTRE, JEAN-PAUL, Difesa dell'intellettuale, Theoria, 1992
L”WENTHAL, LEO, L'integrità degli intellettuali, Solfanelli, 1991
LEPENIES, WOLF, Ascesa e declino degli intellettuali in Europa, Laterza, 1992
BAUMAN, ZYGMUNT, La decadenza degli intellettuali, Bollati Boringhieri, 1992
recensione di Monteleone, R., L'Indice 1993, n. 3
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)
Alcuni mesi or sono un settimanale parigino di varia cultura è uscito con questo titolo su quattro colonne in prima pagina: "Non sparate sull'intellettuale!." Con la medesima trepidazione nei saloon del lontano ovest americano una volta si raccomandava il pianista al buon cuore dei cipigliosi pistoleri della frontiera.
Eppure, non è passato gran tempo da quando Reinhard Bendix scriveva signorilmente che la nascita del mondo moderno è stata promossa e accompagnata da una benemerita mobilitazione intellettuale, in concomitanza col tumultuoso sopravvenire della società industriale.
Sennonché, la storia è corsa fulmineggiando in questi ultimi anni. L'intellettuale, come si vocifera in giro, "fa" problema: il dibattito avvampa attorno al suo ruolo e ai suoi rapporti coi mutevoli assetti sociali e politici. Negli Stati Uniti la modernità ha raggiunto le forme più complesse e perciò è naturale che lì se ne discuta con una speciale ardenza di toni. Per dirne una, ci si interroga sul perché, dopo l'ubertosa stagione dei Wright Milis, dei Riesman, dei Mummford, dei Chomsky, non si trovi traccia, se non pulviscolare, di intellettuali degni di questi predecessori. Qualcuno arriva perfino a dubitare della loro esistenza, come se il genere si fosse estinto con l'eclissi delle ideologie.
I maestri della scuola di Francoforte dicono che l'impegno iconoclastico ha qualificato la funzione storica del ceto laico, colto. Questo impegno sembra essersi perduto dietro i refoli soporosi della routine. Certo, le cause della crisi degli intellettuali sono ben più complicate di questa. I libri da cui qui si prendono le mosse sono solo alcune delle più recenti o provocanti prese di posizione su questo tema, che però già da tempo è giunto a bollichìo nei vari mass media, fuori e dentro l'accademia.
Vale la pena rammentare che un anno fa, o poco più, un gruppo di studiosi franco svizzeri, raccomunati sotto l'etichetta delle "Pratiques sociales et théories", ha organizzato a Dorigny un convegno molto fruttuoso. In quella circostanza Jean-Claude Deschampes ha rilevato che quell'"insieme fluido e polimorfo" che è il ceto degli intellettuali, è stato il più duramente avvitolato e stravolto nella sequenza delle crisi culturali e ideologiche di questi decenni. Bauman ci vede l'effetto traumatico del passaggio dal moderno al postmoderno che ha segnato la "perdita di sicurezza" nei fondamenti assoluti, oggettivi e universali della cultura.
Si tratta, a voler essere più precisi, del tonfo della cosiddetta"cultura coltivata" che, dalle turbolenze del XVII secolo in poi (esplosione demografica, tecnologia agricola galoppante, pauperismo di massa, l'immenso ghettaio degli "uomini senza padrone", vagabondi, accattoni, mentecatti e grassatori, raminganti per le strade del mondo), ha soppiantato la precedente "cultura spontanea". Secondo il linguaggio un po' immaginifico di Bauman, il "giardiniere" di questa "cultura coltivata" è l'intellettuale-legislatore (il consigliere del principe?). Egli è impegnato con zelo in un'attività di controllo e sorveglianza del "mob", di tutta quella maramaglia di popolo imbelvato contro l'assetto di una società che l'ha culturalmente castrata.
Restando nel gioco metaforico di Bauman si può dire che dal lavoro di giardinaggio delle élite illuminate è uscito un terreno culturale inseminato di ordine e demofobia. La postmodernità ha scosso alcune certezze primarie di questa cultura (del tipo: superiorità dell'Occidente sull'Oriente, del bianco sul nero, del civilizzato sul barbaro; dell'uomo sulla donna, e così via). La visione del mondo non è più la totalità bene ordinata, proposta dai 'philosophes' dell'età moderna: è, invece, una pluralità di modelli di ordine e in essa l'intellettuale, mutando ruolo, si fa non più "legislatore", ma "interprete" e "comunicatore".
Bauman tira la sua logica fino a questa conclusione edificante, ma insieme ammonitrice: "Parlare con la gente, piuttosto che combatterla: capirla anziché respingerla o annientarla. L'arte della civile conversazione è qualcosa di cui il mondo pluralistico ha molto bisogno... Conversare o morire". Sono parole che nessuno che non sia ingaglioffito; potrebbe irridere o contestare. Ma esse si rattorbano, collidendo con le insicurezze assembrate nei recessi della coscienza degli intellettuali, se è vero che anche per Bauman non bastano a vincere l'attitudine pessimistica e difensiva del loro critico stare.
L'arte comunicativa... Dagli stessi intellettuali vengono in proposito alcuni tinnuli segnali di scetticismo o d'indifferenza. Max Frisch, aquileggiante sul panorama letterario della Svizzera tedesca, ha scritto, senza fare troppi complimenti: "La verità è che scrivo per esprimermi. Scrivo per me. La società, qualunque essa sia, non è il mio principale, io non sono n‚ il suo sacerdote e neanche il suo maestro di scuola". Elias Canetti sostiene, con molta sicurezza, che le parole sono colpi che rimbalzano come pietre sulle parole altrui; sicché, "non vi è illusione più grande della convinzione che il linguaggio sia un mezzo di comunicazione fra gli uomini". Karl Kraus ha inventato questo esilarante paradosso per vergheggiare la vaniloquenza degli imbelli o dei ciarlatani: "Chi ha qualcosa da dire, si faccia avanti e taccia!". Era cominciata la grande guerra e i fiumi d'Europa scorrevano inzafardati di sangue e di sudore mortifero. Kraus meditava sul mutismo degli intellettuali, chierici impossenti o traditori davanti all'apocalittico massacro. E lui stesso, per un poco, si calò nel sonno della parola, alla maniera di Arpocrate, il dio egizio del silenzio.
Il fatto è che la risposta dell'intellettuale al patassìo delle crisi è stata quella di ripiegarsi in se stesso, rinvigorendo la sua recondita vena individualistica. Questo tema dell'individualismo, come sintomo critico, impregna largamente le pagine del francofortese Löwenthal, specie in quelle dedicate alla nozione goethiana della "falsa soggettività".
Parafrasando un ragionamento già svolto da Norbert Elias nel suo saggio sulla "Società degli individui", Löwenthal spiega che la "falsa soggettività" consiste nel concepire l'individuo non come un elemento quintessenziale per lo sviluppo di una condotta solidale, etica e intellettuale con gli altri, ma come una sorta di "reame clandestino" dominato dal perseguimento dei propri fini egoistici.
Il travaglio dell'intellettuale moderno passa, per l'appunto, attraverso questa falsa soggettività che già Goethe definiva "la malattia universale dell'epoca odierna". Conversando amabilmente con Eckermann, un giorno disse che in tutte le epoche progressive l'intimo si apre al mondo per incontenibile tendenza "oggettiva"; al contrario, sono "soggettive" quelle che s'invorticano in spire regressive, fino alla dissoluzione.
Il declino dell'uomo pubblico, ha scritto di recente Richard Sennett, si consuma nelle scabrezze di simili società intimiste, per graduale macerazione di pensieri e sentimenti. C'è dunque della pertinenza nel linguaggio di Lepenies che definisce gli intellettuali una "classe lamentosa": perennemente scontenti dell'universo mondo, essi sono per natura "melanconici", aggiunge Lepenies toccando una corda che da tempo risuona nei suoi studi.
Dicono i libri della mantica antica: "La malinconia contiene in sé la semenza dell'iracondia, e questo è stato dell'animo in cui invasano i demoni inferiori, conferendo poteri di preveggenza dolorosa". L'iracondia è, dunque, una delle soluzioni dell'umor nero; l'altra è l'utopia, luogo di evasione dalle dispiacente del vivere presente.
Ma questi sono stregamenti che riguardano quel tipo molto particolare di intellettuale che è l'umanista-letterato. Impossibile confonderlo con l'altro tipo di intellettuale, tecnico-scienziato, che Lepenies annovera nella categoria degli "uomini dalla coscienza tranquilla": questi non si scavezzano in lamentazioni sul mondo, ma si limitano a spiegare coi precipitati e le sublimazioni delle loro incolpevoli alchimie.
La distinzione tra queste due culture è cosa remota; sennonché oggi il loro rapporto pare assai più di prevaricazione che di festevole convivenza. Oggi, la crisi dell'intellettuale è in primo luogo crisi dell'intellettuale letterato-moralista. Nell'odierna società industriale egli si trova a confrontarsi con l'"esperto". Da questo confronto emerge che l'intellettuale "classico" è il "non-esperto" per eccellenza e, come tale, ha fatto irreparabilmente il suo tempo.
Per ironia della sorte, i nostri sofisticatissimi strumenti di ricerca forniscono una massa così stupefacente di dati sui fenomeni evolutivi della storia, da confondere la visione del mondo anche tra le élite culturalmente dominanti, alimentando le incertezze della postmodernità, di cui parla Bauman. Tutto pare concorrere a emarginare l'intellettuale "classico" anche dalla vita politica; e anche questa è un'esperienza infoltita di tormentose contraddizioni.
Nel saggio su Walter Benjamin, Löwenthal asserisce che l'integrità dell'intellettuale si tutela "solo se non si ritrae nella torre d'avorio delle parole sovratemporali, ma prende posizione". Bene. Va detto, però, che nulla è più imprevedibile e sorprendente delle scelte che gli intellettuali fanno in questo campo. Per ogni Neruda che predica al mondo essere compito dell'intellettuale schierarsi dalla parte dei miseri e degli offesi, c'è sempre un Grosz che va dicendo: "Essendo io un artista puro, preferisco stare con persone ricche, invece che con persone povere".
Certo, per dirla con Isaac Singer, "dove non c'è pane, non c'è cultura". Ma la sfida che prorompe dalla cultura alternativa del proletariato moderno non trova risposte così sbrigative, indolori, e tanto meno uniformi. Löwenthal cita le parole di Benjamin: "L'intellettuale si mimetizza col modo di vivere proletario, senza per questo essere minimamente legato alla classe lavoratrice". La borghesia non perdona i suoi transfughi. Viene in mente che Canetti se la rideva gustosamente di Brecht, quando lo vedeva aggirarsi per i salotti-bene "travestito da proletario". Sartre coglie bene l'aspetto angoscioso della crisi dell'intellettuale sospeso tra il bando dalle classi privilegiate e il sospetto di quelle subalterne. La sua posizione gli appare molto simile a quella di un "uomo di troppo", con la presunzione di arrogarsi funzioni, in realtà inesistenti.
Questa è davvero questione intorcigliata, dato che il mondo si europeizza e nella tendenziale espansione planetaria del progresso (ma non del sapere, come avverte Daniel Headrick) tecnologico scientifico, gli intellettuali paiono ascendere a posti di responsabilità influenti.
Tutti gli autori dei testi presi a spunto di queste riflessioni fissano la precipitazione della crisi dell'intelligencija allo scenario delle società opulente. Lepenies ritiene che qui l'intellettuale sopravviva come "esperto", ma è moralmente poco sensibile. Sartre non mostra alcuna simpatia per questo "essere astratto che vive dell'universale puro", per questo "cerebrale" raccozzatore di indigestibili vaghezze e generalità.
Goethe, che già s'indignava del "continuo delirio di guadagno e di consumo" dei suoi contemporanei, chissà come avrebbe gemito a vivere nel mondo nostro, dove i "capitani d'industria" sono defenestrati dai "capitani del consumo" e l'"eroe consumatore" campeggia sull'"eroe produttore". Nella società della cultura consumistica Bauman vede vanificarsi il ruolo dell'intellettuale-legislatore, incapace com'è di controllare le forze e le leggi del mercato. Comunque, Bauman non s'illuda: sarà un affar serio fare l'"interprete" in un mondo diviso tra "sedotti" e "repressi", tra chi è integrato nel sistema come consumatore e le masse ruglianti dei nuovi poveri che, pur inuzzoliti, gonfiano all'inverosimile le file dei "non-consumatori", emarginati e "pericolosi".
L'Occidente ricco e consumistico non esaurisce l'esistente, come tutti sanno. Ci sono i paesi poveri, all'Est, nel Terzo Mondo, e qui, dice Lepenies, l'intellettuale è senza competenze specialistiche, ma in compenso è moralmente molto accreditato. Qui, i problemi della decolonizzazione e della libertà ravvedano le grandi passioni ideologiche, nella ricerca di un equilibrio tra i modelli della modernità e la fremenza di un nazionalismo tradizionalista che non viene da boria egemonica, ma da rivalsa sull'onta di un servaggio nequitoso e disculturante. Insomma, in questa parte del globo la storia si rincorre in circolo, a sfoconar la fiamma di quella che Harold D. Lasswell ha chiamato "la rivoluzione permanente degli intellettuali modernizzatori".
Quanto ai paesi occidentali, non è il caso di recitare un requiem per loro. L'intellettuale è un prodotto storico a lento deperimento. Sarà poco racconsolante, ma almeno realistico, ricordare, come fa Sartre, che "nessuna società può lamentarsi dei propri intellettuali senza autoaccusarsi, poiché non ha se non quelli che essa produce". Alleluia!
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