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Attentato alla fiera. Milano 1928 - Carlo Giacchin - copertina
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Attentato alla fiera. Milano 1928
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Attentato alla fiera. Milano 1928 - Carlo Giacchin - copertina

Descrizione


Il 12 aprile 1928 tra la folla che aspetta Vittorio Emanuele III in visita a Milano per inaugurare la Fiera esplode una bomba: venti morti e quaranta feriti il tragico conto dell'attentato. Per quindici anni i vari corpi di polizia indagheranno senza risultato. Attorno alle inchieste si muove un sottobosco di spie, informatori e traditori, uomini dello Stato e ambigui antifascisti, fascisti estremisti e gerarchi corrotti. La strage provoca una lunga scia di arresti e di brutalità, rivelando uno dei lati più oscuri del potere fascista. Ma mostrerà anche insospettabili spazi di indipendenza e di coraggio investigativo, slanci di generosità e di dirittura morale. Attraverso un lungo lavoro di ricerca d'archivio e di paziente ricostruzione degli avvenimenti, l'autore ripercorre la storia delle varie indagini e dei protagonisti facendo luce su una vicenda ancora avvolta nel mistero.
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Dettagli

2012
1 giugno 2012
282 p., ill. , Brossura
9788842541370

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Michele Bettini
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Mio padre era in servizio di Polizia ad un metro dalla bomba. Un collega poliziotto (forse mandato da un superiore che non sarebbe stato identificato) lo avvicinò per invitarlo fermamente ad allontanarsi dal posto, perché, disse, l'arrivo del re era stato posticipato di 15' per motivi "precauzionali". Era "l'occasione per andarsi a fare un bicchierino". Mio padre non voleva allontanarsi, aveva il timore di dover rispondere disciplinarmente della propria momentanea assenza. Il collega lo allontanò quasi con la forza. C'era quindi odore di attentato. A fatti avvenuti mio padre non sarebbe mai finito sotto inchiesta né chiamato a testimoniare. L'attentato fu opera di fascisti dissidenti, che volevano dare una spallata alla Monarchia, gli stessi che poi avrebbero fondato la Repubblica Sociale. E' certo che l'attentato non fu compiuto da elementi anarchici o comunisti.

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Stefano Andreoli
Recensioni: 5/5

Il libro di Giacchin ricostruisce una pagina di storia, tragica e importante quanto le stragi di stato dell'Italia repubblicana: un episodio oscuro e rimasto all'oscuro sia della memoria collettiva sia delle ricerche di tutti gli storici. Un'indagine minuziosa e dettagliata, raccontata come un giallo e condotta con inecceppibile rigore scientifico, che fornisce tra l'altro un interessante spaccato sul funzionamento, i contrasti, le inefficienze, delle diverse burocrazie del ventennio fascista. Vivamente consigliato!

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Voce della critica

Nell'aprile 1928 Milano è al centro di temibili manovre terroristiche: il 6 e il 9 aprile falliscono due attentati alla linea ferroviaria, e al mattino del 12 aprile una bomba uccide una ventina di persone, nell'imminenza dell'inaugurazione della Fiera campionaria da parte di Vittorio Emanuele III, in arrivo di lì a pochi minuti in piazzale Giulio Cesare. Per la seconda volta in sei anni la città è sconvolta da un eccidio, dopo la bomba al Teatro Diana, che la sera del 23 marzo 1921 aveva provocato diciotto vittime.
A causare la carneficina è l'ordigno collocato nello sportello alla base di un lampione, aperto con un passe-partout; la ristrettezza del vano amplifica l'effetto dell'esplosione e proietta per una sessantina di metri micidiali frammenti di ghisa. Mentre è indubbia la matrice anarchica dell'eccidio del Diana (cfr. Vincenzo Mantovani, Mazurka blu, Rusconi, 1979, di cui sarebbe opportuna la ristampa), per la strage della Fiera tutto appare ben più problematico. I due attentati alla linea ferroviaria vengono collegati alla strage e pertanto le indagini competono alle camicie nere della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, nel cui seno opera per l'appunto la Milizia ferroviaria. A complicare ulteriormente la situazione, il 13 aprile avviene una misteriosa "disgrazia" nella caserma della Mvsn di via Pagano, con il decesso di due militi e il ferimento di altri tre; l'episodio viene ricondotto a fatalità, ovvero a un colpo esploso accidentalmente durante l'ispezione delle armi, ma la versione ufficiale suona poco convincente. Tanto più che le bare delle due camicie nere saranno allineate sul sagrato del duomo insieme ai feretri delle vittime del massacro.
Dilettantismo e ragion di stato indirizzano le indagini verso i comunisti, la componente dell'antifascismo assolutamente refrattaria, per ragioni ideologiche, agli attentati, ma che è percepita dalla Milizia quale nemico principale, e tanto basta. I responsabili apparterrebbero al gruppo clandestino del muratore Augusto Lodovichetti, noto alla polizia grazie ad alcuni doppiogiochisti che ne fanno parte e che – adeguatamente sollecitati – forniscono una molteplicità di elementi d'accusa. Vittima della provocazione è, in particolare, il fratello minore di Ignazio Silone, Romolo Tranquilli, arrestato e percosso per indurlo a confessarsi autore del crimine; stroncato dalle violenze patite, morirà il 28 ottobre 1932 nel penitenziario di Procida (a lui è dedicato il terzo capitolo del libro). Con il crollo dell'ipotesi accusatoria, ai dilettanti della Milizia subentrano i professionisti della polizia politica, solerti nello squalificare con l'accusa di terrorismo le varie correnti dell'antifascismo, di volta in volta presentate quali responsabili della strage. Nella retata cade anche il gruppo della rivista "Pietre", diretta da Lelio Basso; per un paio di settimane Basso e una quindicina di collaboratori sono imputati di stragismo e, una volta prosciolti, finiscono al confino. Le cifre ufficiali indicano in 512 gli arrestati, ma secondo Giacchin il loro numero, già ragguardevole, è di gran lunga superiore. L'attentato ha fornito insomma al regime l'occasione migliore per un giro di vite contro i dissidenti, imprigionati e interrogati senza riguardi né garanzie, poiché un'imputazione così grave squalifica chiunque finisca nella rete.
La storiografia ha sinora sostanzialmente trascurato l'eccidio del 12 aprile 1928, che trova il primo inquadramento complessivo in questa monografia, corredata da un utile inserto fotografico e da una fitta appendice documentaria. L'autore ha evitato la tentazione di improvvisarsi investigatore per sciogliere un contorto nodo di cui nemmeno la polizia fascista è riuscita (per incapacità oppure per mancanza di convenienza) a venire a capo. Egli utilizza con sorveglianza critica una massa di materiale che, considerate le sue origini e finalità, deve per davvero essere adoperata con le pinze. Il volume delinea il contesto in cui è stata preparata la strage e offre al lettore una quantità di elementi conoscitivi, a partire dai profili degli inquirenti e delle vittime: il console della Milizia Vezio Lucchini, artefice della montatura contro i comunisti; il cinico capo della polizia Arturo Bocchini, coadiuvato dagli esperti investigatori Guido Leto e Francesco Nudi; il capo del fascismo milanese Mario Giampaoli, impegnato in una sorda lotta intestina con gerarchi rivali e sospettato lui stesso di essere il mandante. Tra le vittime predestinate spiccano le personalità dei giellisti Vincenzo Calace, Riccardo Bauer, Umberto Ceva e Ernesto Rossi, il gruppo sul quale – svanita la pista comunista – si concentrano con maggiore insistenza i teoremi colpevolisti.
Vi sono poi alcune figure di irregolari dell'antifascismo, personaggi di ardua decifrazione come il repubblicano Giobbe Giopp e l'anarchico Dante Fornasari, sospettati di essere rispettivamente complice e presunto autore dell'eccidio. Il fior fiore degli spioni – a partire da Enrico Brichetti, ex dannunziano infiltratosi tra gli esuli in Francia – raccoglie, amplifica o s'inventa confidenze di questo o di quell'antifascista, trascritte in una quantità impressionante di rapporti pervenuti a Bocchini. La polizia ingaggia quale perito tecnico il generale d'artiglieria Vincenzo Torretta, che fa carte false pur di puntellare costruzioni investigative pencolanti; egli stabilisce un'inesistente analogia tra l'ordigno stragista e una bomba dimostrativa costruita e subito distrutta da Ceva, ma i cui resti vengono per l'appunto manipolati da Torretta d'intesa con l'ispettore dell'Ovra Nudi. A strappare Rossi e i suoi compagni alla fucilazione sarà essenzialmente la campagna internazionale avviata da Gaetano Salvemini, che fa leva anche sull'indignazione provocata dal suicidio di Ceva, rinchiuso in condizioni di massimo isolamento a Regina Coeli e vittima di un'accorta manovra di Nudi, che lo vuole convincere, sulla base della perizia falsificata, di essersi inconsapevolmente associato agli stragisti; il detenuto, dopo profonda meditazione, decide che solo il suicidio gli possa evitare di divenire suo malgrado strumento d'accusa e pertanto il 24 dicembre 1928 si toglie la vita.
Da questi riferimenti necessariamente sommari si comprenderà l'interesse del tema affrontato con piglio e tensione cognitiva da Carlo Giacchin, immerso in una fruttuosa ricerca d'archivio e nella difficile interpretazione di carte contraddistinte da un forte carattere di faziosità, in quanto prodotte da un apparato di funzionari di pubblica sicurezza che concepivano anzitutto la loro mansione nel supporto alla dittatura e ravvisavano in ogni gruppo di oppositori dei potenziali terroristi. Il volume intreccia in modo proficuo narrazione e documenti coevi, con il risultato di padroneggiare una vicenda estremamente controversa, ricostruita in un volume che colma un vuoto pluridecennale.
Fra le tante acquisizioni di questo Attentato alla Fiera vi è la biografia del vicecommissario Carmelo Camilleri, ricostruita nelle sue luci e ombre. Il funzionario affianca nelle indagini il console della Milizia Lucchini, ma ne contesta la strategia e informa la magistratura degli indizi a carico degli squadristi milanesi della "Oberdan". Le insistenze del vicecommissario sulla pista dei "giampaolini" gli costano l'allontanamento dalla polizia; egli fa poi filtrare agli avvocati dei comunisti documenti comprovanti l'innocenza degli imputati, il che gli costerà l'arresto e l'assegnazione al confino.
La strage della Fiera, secondo Giacchin, si è preparata "nel sottobosco di informatori, doppiogiochisti, spie, antifascisti pentiti o fascisti dissidenti che proliferava tra Milano, Lugano, Parigi, Nizza e Marsiglia, e tra i quali c'era chi aveva cercato, in più occasioni, di coinvolgere singoli fuorusciti in progetti di attentati dinamitardi. Ma i responsabili dell'effettiva realizzazione rimasero, e rimarranno per sempre, nell'ombra".
Trascorso un quarantennio, il 12 dicembre 1969, Milano si ritroverà alle prese con un attentato di matrice politica. Viene da chiedersi per quali motivi il terrorismo si sia accanito su questa città, che evidentemente rappresenta un obiettivo strategico anche in riferimento al suo ruolo di capitale industriale dell'Italia. Varrebbe forse la pena di leggere il bel libro di Giacchin in chiave comparativa, insieme alla letteratura esistente sugli altri due attentati di Milano, per individuare analogie e differenze fra i tre episodi, dalla fase preparatoria sino a quella dei condizionamenti investigativi, passando per le tecniche con cui si sono individuati responsabili di comodo, nonché attraverso l'utilizzo di infiltrati e agenti provocatori.
Mimmo Franzinelli

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