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Conosco Renato Solmi da circa una dozzina di anni, da quando ci siamo incontrati nell'interesse e nel lavoro comune attorno alla cultura e ai movimenti della nonviolenza positiva e attiva. Mi limito ad alcune osservazioni su questo aspetto dei suoi scritti filosofici, editoriali, scolastici, storici, qui raccolti. Egli stesso dichiara la speranza, al termine della prefazione, che questo suo libro non appaia soltanto "rivolto verso il passato", perché egli "da un certo numero di anni" vuole affacciarsi "sulla linea più avanzata del fronte che separa il passato dal futuro, o, se si preferisce, la salvezza dalla catastrofe": questa linea è per Solmi la ricerca e l'azione nonviolenta.
"Le problematiche teoriche e le iniziative di carattere pratico (
) di questi movimenti non mi sono del tutto estranee", dice con grande modestia, e spera che militanti e personalità della nonviolenza possano presto "esercitare una funzione di guida e, insieme, di collegamento col mondo della politica vera e propria, che necessita più che mai, oggi (
), di un rinnovamento radicale" dei quadri, dei metodi, delle prospettive: "una rivoluzione in piena regola, di portata difficilmente concepibile, il cui giorno non dovrebbe essere lontano".
Oggi una tale speranza può sembrare meno vicina, davanti alle nuove violenze del secolo XXI, ma questa conclusione di Solmi ci invita a riflettere sulle linee di fondo della storia, che tante volte emergono anche in modo imprevisto (come le rivoluzioni nonviolente del 1989, modello per altre successive esperienze, e l'uscita con saggezza e senza la prevista violenza del Sudafrica dall'apartheid). L'idea di rivoluzione, che aveva per decenni orientato l'osservazione di questo studioso e amico, gli si presenta ora possibile e necessaria come liberazione ed emancipazione storica dell'agire politico dall'uso sistematico della violenza, a quell'agire finora incorporato, spesso anche negli stati dalla forma democratica.
Perciò oggi Solmi sollecita i movimenti nonviolenti ai quali partecipa ad agire direttamente nella politica. Intanto, egli continua la sua opera di traduttore, volgendo in italiano i maggiori autori della peace research internazionale. Senza dimenticare l'articolazione tra i movimenti e la politica istituzionale attraverso i partiti, questa sua sollecitazione è certamente preziosa. Vedo in questo suo impegno attuale uno sbocco del suo cammino intellettuale e pubblicistico, ampiamente documentato negli scritti raccolti in questo poderoso volume.
Infatti, nell'ultima pagina del libro, Solmi, pur grato e ammirato per quelli tra gli intellettuali comunisti della sua generazione che svolgono una funzione critica preziosissima, dice che la maggior parte di loro, dopo il tracollo politico dell'Urss, non avrebbero "avuto il tempo e la capacità di far fronte con una coscienza pienamente adeguata alla sfida rappresentata da questi nuovi sviluppi" e "ai termini in cui si pongono attualmente i problemi della lotta per la pace e per la giustizia sociale nel mondo". Nei movimenti nonviolenti egli vede prefigurato "l'avvento di una nuova Internazionale pacifista e nonviolenta, aliena da ogni forma di costrizione, ma non meno saldamente coesa e compatta di quelle che l'avevano preceduta".
Esplicitando questi spunti, possiamo dire che la prospettiva è quella del socialismo gandhiano, fondato sulla riforma morale, culturale, strutturale, e non sulla costrizione. La nonviolenza genuina, quella che interessa a Solmi, non è la sola astensione dalla violenza, ma qualcosa di positivo: una forma di lotta con le forze umane della volontà, della resistenza, dell'unità, dell'amore per l'umanità, dell'agire concertato nella politica; è il programma costruttivo per togliere le violenze strutturali e culturali dalla società, più profonde e gravi della stessa violenza diretta.
In questo volume, specialmente nella lunga sezione (quasi trecento pagine di saggi, rapporti e traduzioni pubblicati tra il 1965 e il 1976, più uno del 2000) su La nuova sinistra americana, la guerra del Vietnam, la resistenza nell'esercito americano e lo sviluppo dei movimenti pacifisti, l'autore presta già attenzione agli aspetti nonviolenti dei fenomeni studiati. Chiama dapprima "simboliche" le azioni dimostrative nonviolente, ma registra l'uso del metodo del consenso, parla di "rivoluzione nonviolenta", di "esercito nonviolento", di "rivoluzione interiore", studia l'obiezione di coscienza. Ma soprattutto dedica spazio alla "questione della nonviolenza": Solmi conclude giudicandola un mezzo adeguato agli obiettivi limitati di quelle lotte per i diritti civili, ma non alla "prospettiva di una rivoluzione vera e propria, che implica la necessità di gestire il potere in un ambito più o meno vasto, e quindi anche l'eventualità del ricorso alla violenza".
Poi registra "alcuni limiti chiaramente individuabili" del movimento per la pace negli Stati Uniti, "incapace di andare alla radice del problema", perché, tendendo a isolare l'aspetto della paura atomica, "si presta difficilmente a fornire la premessa di un'azione politica rivoluzionaria". Ma la guerra del Vietnam, toccando più direttamente le coscienze, "stringe in modo indissolubile i diversi aspetti della situazione storica internazionale" e permette una certa continuità e rapporto fra la tradizione rivoluzionaria socialista e i movimenti nuovi che si sviluppano in questa fase in America e altrove, a componente antimilitarista e pacifista. In questi movimenti, le forze costruttive della coscienza personale, coltivate soprattutto nelle chiese dissidenti o minoritarie, si ergono contro la guerra, così come si sono levate contro la discriminazione razziale: il loro gesto eminente è l'obiezione di coscienza. Ora, questa obiezione è la radice della scelta attiva nonviolenta. Negli scritti di quegli anni, Solmi coglie elementi che vedremo svilupparsi, seppur contrastati duramente, fino a oggi.
A questi testi lontani vorrei accostare, sul tema, un intervento più recente di Solmi, comparso in appendice a un volumetto che raccolsi nel 1999, contro la guerra Nato-Serbia (Per perdere la guerra, Beppe Grande, 1999). In quelle pagine, Solmi replicava a quella che gli pareva una condanna assoluta, senza eccezioni, della guerra, rivendicando il diritto di difesa, anche armata, di un popolo aggredito. Il suo interesse per la nonviolenza, mi pare, contiene anche oggi questa riserva. È noto che Gandhi stesso incita a ribellarsi con la violenza a una violenza, piuttosto che subirla, che sarebbe viltà e collaborazione passiva. Ma nello stesso momento indica una terza via tra viltà e violenza, che è la resistenza e la lotta nonviolenta, certamente da costruire per tempo nelle menti, nelle strutture, nelle esperienze. Il punto è qui: doverosa è l'azione di difesa della dignità offesa (propria o altrui), condannabile l'inazione; l'azione, poi, sarà violenta o nonviolenta secondo che siamo impreparati, costretti a ripetere l'aggiunta di violenza a violenza, oppure preparati a quella rivoluzione storico-politica che sola può condurre l'umanità fuori dalla catastrofe predisposta dalla vecchia logica distruttiva.
Insomma, Renato Solmi ci insegna che se la nonviolenza non è anche critica, autocritica, problematica, perciò anche politica, rischia di rimanere retorica. Enrico Peyretti
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