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Anno edizione: 2007
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recensione di Bo, R., L'Indice 1996, n. 2
Seguendo la scia di una lieve foglia di eucaliptus che, preda del vento, dischiude e sigilla quest'ultimo, frammentista, romanzo di Orengo, penetriamo la realtà riposta e tutta analizzata al femminile di un paese sbattuto dal vento e arroccato tra Liguria e Francia: paese che osserva da una posizione privilegiata e con atteggiamento benevolo il flusso delle passioni che lo attraversano, coinvolgendo persone e cose provenienti dallo spazio situato oltre il confine.
Protagoniste assolute di queste pagine sono dunque le donne: da un lato il gruppo, variegato per età, condizione, intenti, di coloro che sono nate e vissute in quel luogo, e che espiano con ironia e dolore la propria ontologica condanna all'amore; dall'altro la signora Eveline Waal, una vedova di origine olandese straordinariamente disposta all'ascolto e capace di contenere, come una madre e più ancora, le angosce di queste donne-bambine che trovano in lei uno specchio per riconoscersi e nella sua casa, solare e piena di fascino, biscotti appena sfornati e profumi di infanzia per lenire i propri tormenti. A dispetto delle apparenze, la vita della quieta signora straniera non è completamente serena, n‚ priva di ombre: con il marito Peter, sospettato di tradimento durante l'ultimo conflitto mondiale, aveva abbandonato l'Olanda, tentando di rifarsi una vita al riparo dalle insinuazioni, prima in India e quindi in Italia. Qui Peter era morto, dopo alcuni anni di felicità, portando con sé (ma non del tutto!) il suo terribile segreto: gli strascichi della vicenda la coinvolgeranno ancora, e dolorosamente, in forma di strane visite e telefonate, o addirittura di vandaliche intrusioni nella sua privacy.
Così, nella corrente alternata di un erotismo disperato e ferito, che la signora Waal vive indirettamente attraverso i racconti delle sue giovani amiche e confidenti, e l'infittirsi del mistero legato al marito, l'ormai matura Eveline, a dispetto dei suoi interessi umani, del suo amore per tutte le cose e della sua fine sensibilità, conosce il suo autunno, con la stessa naturalità con cui anche l'estate vi approda ("l'estate, fra mare e collina, è andata ormai in settembre... In autunno ogni pianta si ricarica, s'affanna, si piega nella nuova acqua che torna a scorrere"). Ma è un autunno che velocemente volge verso l'inverno, l'isolamento, il silenzio, l'abbandono, il sonno lungo e appannato simile in qualche modo alla morte. Il suo unico desiderio è quello di partire, tornare ad Amsterdam per riposare accanto al marito: ormai sa che quello che sta ascoltando dentro di sé, quel suo inesorabile allontanarsi da se stessa non è altro che "l'arrivo della propria morte". Riconciliatasi finalmente con Théo, il figlio nato a Peter nel corso del suo primo matrimonio, la "straniera" parte, senza voltarsi indietro, come aveva desiderato, senza addii n‚ lacrime: scriverà una lettera, dice, per le sue "simpatiche e goffe figliole", una volta giunta a casa, in Olanda.
Una scena conviviale chiude il romanzo: nel corso della cena le donne del paese scoprono inavvertitamente qualcosa di molto significativo circa il passato del signor Waal, senza peraltro saperlo interpretare; ma, soprattutto, ricordano insieme Eveline con grande affetto, levando infine i calici a lei che era "madre e sorella... discreta, affettuosa, ferma... un'amica al riparo dei nostri tradimenti".
In questa complessa partitura di personaggi Orengo orchestra con sapienza le voci dure, a volte crudeli o volgari, delle donne del "coro", con quella pacata, enigmatica e spesso salvifica della solista, che sempre più sconfina in un silenzio carico di significati, in un discorso che nelle ultime pagine è fatto di pause evocative più che di parole. È il linguaggio stesso della natura - di una Liguria tanto cara quanto familiare all'autore, e oggi purtroppo sempre più rara - quello che la signora Waal pronuncia, una natura familiare, quotidiana, spicciola ma non per questo meno profondamente poetica (la luna "non... più grande di una lenticchia", i mandarini, le albicocche e le nespole che come piccoli soli stanno appesi sui loro rami, il viola tenero del fiore delle fave e il "cielo azzurro pronto a screpolarsi"). Il tutto contrapposto al "mondo che impazzisce", agli uomini (proprio nel senso di maschi, questa volta) violenti o banali e spesso malati che con un linguaggio impietoso le tante Terese, Luise, Caterine e Francesche evocano sulla scena raccontando le loro "alchimie amorose" vissute "sul filo del burrone". Sono i ritratti di queste ragazze che si sentono "estreme", che girano la notte armate di tirapugni, che vorrebbero uscire dalla gabbia di un paese che "non è un paese, è un orecchio" tanto è piccolo e pettegolo, a rimanere impressi nella nostra memoria, tanto più intensamente quanto più la cornice che li contiene, quella dell'esistenza di Eveline, che ha saputo accettarsi e accettare, è compiuta in se stessa, nelle sue zone di luce come in quelle d'ombra. Una donna che viene definita come una "straniera familiare", con un ossimoro affettuoso e pregnante, che ci piace particolarmente ricordare, perché sembra corrispondere a quello che, in fondo, tutti noi siamo, ai nostri stessi occhi.
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