"Tutti i giovani infelici sono simili tra loro, ogni giovane felice è felice a modo suo". E Tolstoj dovrà perdonare l'ennesimo abuso del suo celebre incipit, per di più con l'aggravante del gioco, ma proprio questo potrebbe essere un motto buono per tutti i (giovani, ça va sans dire) protagonisti dei racconti che compongono Avevo litigato con uno svizzero. Il titolo non trova ragioni dentro, bensì fuori l'opera; rimanda infatti a un episodio della vita di Dino Campana riferito da Falqui in Per una cronistoria dei "Canti orfici". I canti orfici facevano già capolino nell'opera precedente di Valentino Ronchi, Vecchi libri per quest'epoca incerta (Foschi, 2013), romanzo con protagonista un giovane cercatore e venditore di vecchi libri nella grande città. La grande città era ed è Milano anche nel nuovo libro, che affida allo stesso nume, Longanesi, la parola in esergo. Ma le corrispondenze vanno oltre il paio di dettagli. Il giovane di Vecchi libri, ottimista come la sua periferia d'origine, lo si può leggere in continuità con il ragazzo di belle speranze che da Magenta (in Un inverno con il gatto Virgola, primo racconto della raccolta) si trasferisce a Milano, trovando un bilocale nel quartiere Isola e la fidanzata in un negozio del centro, più qualche lavoro tra traduzioni, lezioni private e scrittura (un saggio su Jankélévitch in particolare, il cui pensiero è un secondo ritmo sotto quello della narrazione). Così si può partire, un nuovo tempo può iniziare, ma la vita, si capisce subito, non è un meccanismo, un'applicazione dei sogni; la vita, anche se va, rimane sospesa, nuda di fronte alle possibilità in agguato, e procede a sorprese, come quella di Virgola, gatto anziano che un'associazione cerca di affidare, e affida proprio al giovane, dopo il ricovero in ospizio del legittimo padrone. Nei due racconti seguenti l'io narrante e protagonista sembrerebbe lo stesso; c'è sempre quella vita risolta (ora la fidanzata è una moglie ed è arrivata una bambina) e insieme irrisolta, di nuovo non nel senso del tormento ma della sorpresa, della sua attesa, dell'avventura cercata e domata dalla sobrietà che forse è davvero una proprietà lombarda, o almeno così pensa l'io innominato nei suoi due viaggi in una Roma vissuta con esotismo, meta di docili fughe. Il quarto episodio è Vite di alcuni bambini nati negli anni Settanta spiegate attraverso le loro attuali automobili, una dozzina di pezzi brevissimi dove il narratore racconta le storie di alcuni suoi compaesani attraverso i ricordi, gli aneddoti sedimentati nelle loro auto. È la parte più accattivante del libro e insieme la più eversiva, per impostazione rispetto ai primi tre racconti; come eversivo è anche, ma per storia e trascorsi del protagonista, l'ultimo racconto, dedicato alle avventure e all'innamoramento di un giovane attore d'operetta. Sono eversioni che non sovvertono l'unità sentimentale del libro, il suo ottimismo, la sua estraneità sia al trauma che alle sindromi da assenza di trauma; e pure la sua mancanza di immaginazione, come la intendeva Godard parlando di sé e dei suoi film. Si legga il riferimento come un invito a intuire l'influenza del cinema francese sulla scrittura di Ronchi, ma lo si consideri anzitutto come un generico dettaglio di stile, utile ad avvicinare la filosofia di questa narrativa che al dramma preferisce il passo meditativo, e che si dona con attenzione ai minimi gesti, a quei "piccoli dettagli circostanziali" cari proprio a Jankélévitch. Andrea Cirolla
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