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Molto ambizioso, forse troppo. Una sola, splendida poesia, tuttavia, vale l'intero libro: "La Pornodiva"
Ceronetti ancora una volta ci incanta con le sue poesie da cantastorie del nuovo medioevo, con rime religiose, commoventi, grottesche e bambinesche. Scava nel gorgo di dolore che è la Storia per illuminare il destino di angeli feriti (ovvero esseri umani): dalla strage di Beslan al ferimento di Giovanni Paolo II, dall'assedio di Stalingrado alla visione di Bernadette, dalla fine dei Romanov all'11 settembre. Versi anche per l'Englaro, scritti prima della sua dipartita; ed è qui che il recensore confessa il suo imbarazzo nei confronti della posizione del poeta che, fedele infatti al suo gnosticismo dualista, si aggrega al coro mortifero del mondo laico e moderno che, giustamente, lo disgusta.
Recensioni
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Suddivisa in due sezioni, la prima delle quali costituita dai componimenti che il poeta ha avuto modo di utilizzare nel suo Teatro dei Sensibili e la seconda da testi inediti, la raccolta si presenta come la proiezione di un universo (talora fittamente nominalistico: "scale ascensori uffici / schermi tubi tartine"), le cui vicende, sceverate dalle elaborazioni del pensiero, si susseguono all'interno di flash illuminanti, ciascuno, consecutivi frantumi d'orrore.
È l'orrore, in effetti, il mastice che lega i personaggi (dalla ragazza di Novi Ligure, sventratrice di madre e fratellino, al pugile di regime, che bestiali pugni ha dato "a poveracci perché rossi"; da Eluana Englaro, "priva di morte e orfana di vita", ai terroristi all'attacco delle Torri gemelle ecc.), gli eventi del libro, evocati con minuziosa precisione (la "macelleria" della famiglia imperiale russa nella cantina di casa Ipatiev, o il bombardamento di Dresda nel '45, oppure il massacro di Beslan, dove perirono 330 persone di cui 186 bambini), e il loro effettivo essere vissuti ed essersi verificati nella scena del mondo. Un mastice che rivela in trasparenza anche il cerimoniale con cui l'io, nell'atto del pensare-poetare (di formulare un giudizio sulla realtà), si autoannulla quale punto di riferimento del testo, proprio mentre il suo frenetico ragionare suscita un teatrino d'ombre Lee Oswald appostato per uccidere Kennedy; il carnefice di Trotzkij pronto a conficcare la piccozza sul cranio della sua vittima; il "Lupo Grigio" tra la folla, in attesa di sparare al papa benedicente
intese a rappresentare, tutte, l'assurdità di una condizione esistenziale assediata dall'ineludibile onnipresenza del male: da "La Cosa-forte-come-la-morte". Sicché la storia, "sacro al dolore fiume", non può non configurarsi che come sforzo vano, perché eterno, di fuggire dall'assurdo e dal male, al cui confronto il bene rimane un perenne dover essere, che mai si tramuterà in essere.
Appartengano a diavoli o a santi, le ombre ceronettiane stilizzano, comunque, le sensazioni transeunti d'effimero e di strazio, che l'io capta e trasfonde in versificazioni svariate nei metri e nei toni, in relazione alla precarietà del destino dell'homo tragicus ("la carne aggrappata all'anima") e di ogni altra creatura ("Pena la bestia il sasso la foglia"). Anche se l'io protagonista del testo non sempre o non totalmente coincide con l'io del poeta, posto che l'Angelo Ferito (la copertina ne riproduce l'immagine mutuandola da un dipinto di Hugo Simberg del 1903: due ragazzi trasportano in riva a un lago un giovane biondo, gli occhi bendati e un'ala insanguinata, seduto curvo su una rudimentale barella) non è, come sottolinea lo stesso Ceronetti, l'alter ego dell'autore, né uno dei suoi travestimenti, bensì la metafora liberatrice di un'immaginazione malinconica del tipo di quella sintetizzata dal distico ("Tutti gli alberi / sono Angeli Feriti") conclusivo della Nota preposta ai testi della raccolta.
In quest'ottica, il poeta riversa dolori, riflessioni, stupori e ubbie dell'Angelo nello schema (concepito, invero, in modo approssimativo) della ballata: dell'antica forma lirico-narrativa prediletta e normalmente intonata in pubblico dai cantastorie, in origine accompagnata non di rado da musica e da danza. Forma, sì, popolare, ma che qui, atipicità delle stanze a parte, non si nega al recupero della parola preziosa ("c'incuora", "oppressura", "strepere"), alle sonorità prodotte tanto dalle reiterazioni di identici gruppi sillabici ("il vir che fummo è fatto immonda fame") quanto dall'omofonia delle rime ("Ora siamo al sicuro / di là dal muro"), né alle improvvise spezzature iperbatiche del ritmo ("E Don che ignoro in quale / termini mare") o alle riprese anaforiche adoperate a mo' di cantabile ritornello. Franco Pappalardo La Rosa
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