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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 1999
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recensione di Bo, R., L'Indice 1995, n.10
recensione pubblicata per l'edizione del 1995
L'indecidibilità del confine tra normalità e follia, il bilico tra ribellione e ossequio nei confronti di una realtà negativa, percorrono come un filo ad alta tensione le pagine di questo secondo romanzo di Eraldo Affinati. Sullo sfondo di uno scenario degradato e angosciante, quello di un istituto di cura per malati di mente, dall'irriverente nome di Villa Felice, si colloca il racconto-diario dell'io narrante, un malinconico quasi quarantenne disperatamente solo, matto sì, ma non proprio da legare. Questi, ripercorrendo le gesta dell'indimenticabile protagonista di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", imprime una svolta dinamica (e drammatica) alle misere esistenze dei suoi compagni di sventura, al fine di restituire loro, anche se per un breve momento, l'illusione di essere vivi, di poter effettuare scelte autonome. Questo eroe senza nome, ma con la stoffa del leader, si trova dapprima a capeggiare una violenta rivolta nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni (mediche e politiche) che, non occorre dirlo, viene repressa con la forza e non dà che risultati negativi; poi, ridimensionata la sua libertà di movimento, lo vediamo impegnato a dirigere in qualità di 'mister' un'appassionante sfida calcistica tra psicopatici e ragazzi dell'oratorio, a ideare incontri erotici di una disperante intensità con le ospiti femminili dell'istituto e, come ultimo atto, a fuggire, in compagnia di un altro paziente, nella speranza di poter riconquistare un qualsiasi contatto con la realtà quotidiana dei (cosiddetti) sani.
Proprio la fuga, che si conclude con un ritorno alla casa di cura (che improvvisamente appare come un rassicurante tempio della normalità), segna la svolta definitiva del libro, che termina con un'accettazione molto umana e lucidissima dei limiti del proprio io e di ogni avventura esistenziale. La "bandiera bianca" del titolo evoca la necessità di una resa di fronte all'impossibilità di tradurre in pratica il contenuto dei sogni del protagonista (di cui egli si dimostra molto orgoglioso: "Io affermo, davanti a tutti noi, di essere responsabile, in primo luogo, dei miei sogni. Troppo facile rispondere soltanto delle azioni: quella non è responsabilità, quella è cartellonistica stradale, pubblicità, diritto, contrabbando razionale. Dobbiamo prima comprendere, poi difendere ciò che non si fa catturare dalla volontà: il nostro vero istinto, nel segno indelebile dell'unicità della persona"), un uomo come tanti che vive immerso nel conflitto tra Ideale e Reale. Per meglio dire: la conclusione del romanzo ci invita a credere che il sogno di un mondo più puro di quello con cui siamo costretti a misurarci si può realizzare, secondo un paradosso che Affinati eredita da una tradizione letteraria ben consolidata, solo ed esclusivamente nel territorio della pazzia, della diversità, nel regno del deforme e del difforme dove anche il linguaggio, o quel che ne resta, si dimostra più sano ed efficace. In fondo i veri Innominabili, gli scarti, gli anormali, non sono altro che le figure che ogni giorno ci circondano: "camerieri", "baristi dalle orecchie a sventola", "donne che nascondono le rughe del collo", "ubriachi di tre bicchieri", "ragazze obese dal body troppo stretto", "fidanzati con barba e mazzo di fiori", e cosi via, secondo quanto "notarilmente" registrava nelle ultime pagine del suo diario il nostro protagonista. Come dire allora: gli Innominabili siamo tutti noi, nessuno escluso.
Al di là di queste tematiche, che possono anche apparire sfruttate, occorrerà sottolineare invece la lucidità e l'estremo rigore che caratterizza la scrittura di Affinati, una scrittura che non risparmia nulla al lettore, offrendogli un quadro di devastata umanità, di solitudine, di disagio quasi intollerabile. Un quadro i cui tratti fondamentali sono decisi da un linguaggio senza cedimenti, capace come un'accetta di recidere intorno a sé tutto il superfluo, e di restituirci, nelle pagine migliori, le tracce del sangue scaturito da questa volontaria amputazione. Un libro crudo, ma anche pervaso da una tenerezza profonda, se l'occhio del protagonista si sofferma ad accarezzare le anime strozzate e prigioniere dei suoi compagni l'Uomo-aquila, il Solitario, il Coprofago, il Granatiere (personaggio davvero tolstojano, che ci riporta al saggio - "Veglia d'armi", 1992-dedicato da Affinati al grande scrittore russo), il Giocatore, e via via tutti gli altri.
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