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Un’opera che esplora il confine tra corpo, linguaggio e identità. Al centro c’è la perdita del marito della protagonista, una perdita che non si limita alla dimensione umana del lutto, ma che invade i meccanismi stessi della percezione e del significato. Il corpo non è solo carne, ma un archivio mutevole di memoria e presenza, una tela su cui si proiettano le tensioni tra realtà e dissoluzione. La narrazione si dispiega in una temporalità frammentata, che riflette lo stato mentale della protagonista: un’artista che esplora la propria corporeità come strumento di indagine. La figura misteriosa che appare nella casa della protagonista – Mr, Tuttle, un uomo fuori dal tempo, privo di coordinate chiare – sembra incarnare il cuore pulsante dell’opera: il rapporto tra linguaggio e assenza. Questo elfo o gnomo troppo cresciuto non è tanto un personaggio quanto un enigma ontologico, una presenza che destabilizza la linearità del linguaggio. L’opera lavora quindi sul margine, tra visibile e invisibile, tra ciò che si può dire e ciò che si avverte senza parole. È una meditazione sul tempo – il tempo intimo, non cronologico – che si dilata o si spezza, costringendoci a confrontarci con l’impossibilità di afferrare il reale nella sua totalità. In questa prospettiva, l’arte diventa non solo una pratica estetica, ma una forma di resistenza all’oblio, un modo per mappare il terreno instabile dell’esistenza. Il simbolismo del corpo come spazio liminale è centrale: un luogo di trasformazione, ma anche di vulnerabilità. La protagonista, nella sua ricerca artistica, non fa che esporsi a questa fragilità, spingendosi verso l’invisibile con una determinazione che è quasi un atto di fede. DeLillo sembra dirci che l’arte – come il corpo – è un continuo esercizio di perdita e ricomposizione, una lotta per dare forma a ciò che, per sua natura, sfugge.
Se è vero che con la lettura si possono sperimentare stati d’animo terribili in maniera non pericolosa, questo libro offre la possibilità di osservare l’effetto prodotto da un grande dolore e la trasformazione che esso opera sulle persone nel corso del tempo, e di sperimentare quella solitudine che può far impazzire, che rimescola il tempo, confonde le parole, i gesti e fa smarrire il senso delle cose. La protagonista è Lauren, una body artist, che elabora, pagina dopo pagina, con la mente e con il corpo, il lutto per la perdita del marito. In questo processo l’altra figura chiave è Mr Tuttle, un personaggio enigmatico, difficile dire chi o cosa sia: una sorta di proiezione, una personificazione del trauma, del passato o del futuro; forse soltanto un espediente per sentirsi meno soli e ritardare l’addio alla persona amata e persa, un modo di costruire un’altra realtà per sfuggire a quella vera, ingestibile dopo la perdita. Seguendo Lauren, ci si perde nei meandri della mente e si impara che il corpo può essere la vera salvezza dal dolore: il corpo metabolizza, cambia e si adatta, ridà un ordine al tempo perché ci àncora al presente; il corpo ci ridà noi stessi, ci dice chi siamo. Ed è il corpo, infatti, che Lauren usa per superare la perdita e ricominciare a vivere, perché un grande dolore, come tutte le emozioni forti, è anche una grande ispirazione per l’arte. Questo breve libro è così intenso, o meglio, denso da richiedere un tempo di lettura e un’attenzione non banali, e penso tuttora di non essere riuscita a trovare le parole giuste per parlarne. Forse più che leggerlo, l’ho sentito.
Il romanzo breve più bello che abbia mai letto. Una storia sull'elaborazione del lutto, sul processo creativo, sulla solitudine.
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