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“Nuovo grano deve nascere, nuove spine avranno da gridare”, nuove sono le parole di M. Paladino. L’ opera si nutre di contrasti, slanci all’ infinito e radici nell’ indiscutibilmente umano. La copertina è composta da oblò, verso il cielo, finestre sul mondo e solo un chiodo. La poesia e il sole entrano, come da feritoie dell’ animo, si manifestano in forma di folgorazioni. Sì, la poesia di Paladino inchioda alle pagine, inchioda ciascuno di noi alle proprie colpe, alle proprie miserie, alle proprie responsabilità. Con altrettanta veemenza, essa induce all’ essere, al vivere intensamente. Le parole sono il risultato di un impasto: carne, sangue, corpi, istinti, raziocinio, sentimenti, sguardi. Ciascuna frase si lega alla natura primitiva, selvaggia, incontaminata, luogo delle origini, pur tuttavia, luogo mitico e indistinto. La dea madre o matrigna è sempre gravida di suggestioni e di peccati e di espiazioni. I versi sono viscerali, intimamente personali, ma non per questo meno universali. La vita e la morte descritte in queste pagine sono eventi ciclici, ineluttabili, che scorrono di generazione in generazione, che chiamano alla memoria, al ritorno, al difficile equilibrio. La ricerca del sacro include tutti e ciascuno, invoca la Pietas, la coscienza della fragilità comune, perché Eros e Thanatos lottano senza sosta, lasciando stremati. Tutta la complessità umana si specchia tanto negli occhi quanto nelle opere d’ arte, tanto nei riti collettivi quanto nelle voci, nelle alcove, scenari di lotta e di quiete. E’ così perché “l’ amore chiede discrezione, chiede di essere messo a dormire dissipato, in una placenta di papaveri.”La componente del tempo è fondamentale perché scandisce le composizioni senza alcuna regolarità, ma con immensa maestrìa, una maestrìa che ci fa sentire forse nel nostro elemento costitutivo o forse altrove. Ci fa dire il nostro “GRAZIE” all’ autore capace di leggerci dentro.
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