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Ho letto - e riletto - questo testo (credo l'ultimo) di Franco Cordero, giurista tanto acuto quanto disilluso, ma mai pessimista: lo consiglio a tutti coloro che amano il diritto.
Libro letto per il pregio dell'autore, ma con piena cognizione di causa, non ho capito un rigo, tranne il titolo. Esposizione a mò di cronacca, con dati accozzati, un susseguire di notizie e di riferimenti poitici... bravo chi l'ha capito, in toto!
lingua di straordinaria eleganza, cultura altissima . Per non dimenticare e per capire il tempo che stiamo vivendo . Per me questo commento è più che altro una occasione per esternare la mia ammirazione per l'autore, uno dei pochi Italiani contemporanei di grande ascendente spirituale e culturale. Non l'ho mai incontrato, ma sono felice di avere, negli stessi anni, calpestato lo stesso suolo dell'università romana .
Recensioni
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Vox clamantis in deserto? Battista avvistatore? Detratta la spinta profetica (perché qui si fa piuttosto un loicissimo conteggio di cose), è il senso che procede dalle pagine che Franco Cordero scrive instancabile per annunciare non già la venuta del Signore a cui i Vangeli alludono, ma ben più terribilmente il precipizio d'abisso sui cui orli stiamo allegramente ballando il trescone.
Il suo ultimo libro ha un titolo che, quanto all'origine, suona misterioso ai non sabaudi, Il brodo delle undici, ma che il sottotitolo un poco di più schiarisce: L'Italia nel nodo scorsoio. Tutto è spiegabile con un detto in piemontese ("ël bròd o 'l breu d'ondes ore") con cui si designava la scodella dell'ultima colazione concessa al condannato prima del capestro. Bell'immagine locale per dire che come italiani non siamo distanti dal giorno della condanna.
Lo dico subito, perché non ci si aspetti da me un'analisi incommossa: non sarò un recensore di giuste e doverose distanze. Sarò piuttosto il (breve) cantore di un libro che vorrei fosse letto da tutti. Perlomeno da tutti coloro che ancora non abbiano ceduto al facile fascino dell'"Unto" e del "Predestinato", poiché non arrivo a pensare che il libro possa giovare ai più duri d'orecchi, sicuro come sono che qui ci vogliono i cosiddetti lettori forti: gente che non si spaventa di parole difficili, immagini pregnanti, sintagmi estrosi, sintassi inflessibile, illuminanti aperçus (e ironici uppercut). Questo non è un libro per tutti, insomma. Irto com'è, secco, colto, concreto, e a modo suo antico: ossia capace di entrare nel tempo per scavalcarne continuamente i recinti.
Cordero non è mai ovvio. Scava nei sotterranei della nostra storia e risale autoritraendosi nel ruolo dell'"anamnesta" al "codice genetico", alla "continuità cromosomica", ai "genomi della dottrina berlusconiana". Ossia da un lato gli italiani di "età mentale infantile", e dall'altro l'"egocrate" che li incanta e li incatena: il grande pifferaio che li porta a perdizione. Parrebbe una fiaba macabra, quella di una specie di psicopompo ridens, mentre non è che la realtà di una lunga storia.
Non è un caso che queste pagine (sempre accompagnate da puntuali distinguo) siano intessute di rimandi a Hitler, a Mussolini, ma anche a Savonarola o a Cola di Rienzo, a cui è dedicato un capitolo magistrale, condotto con incastri di citazioni dalla famosa Vita dell'Anonimo romano. Ma anche, per ragioni affini, all'integerrimo ministro Giuseppe Prina, vittima di schieramenti promiscui e di gallofoba populace. Per non tacere del losco "affaire" Moro o del diversamente losco "affaire" (leggasi affaire&affari) Licio Gelli, vero e proprio Battista di una lignée degna dello Zola cliente di Bernard (oh, la bella filibusta dei tanti venerabili "olonesi" fino al "Divo Berlusco", l'"Olonese" per antonomasia!).
Nell'età del "brodo delle undici" quale potrà mai essere la salvezza che ci aspetta? Da quale spariglio potrà venire? Da quali maglie saprà sgattaiolare? Domande retoriche che Cordero non ha la pretesa di tradurre in risoluzioni consolatorie. Rebus sic stantibus, c'è poco da sperare in un colpo di fortuna. A meno che si voglia cadere in uno dei soliti vizi dell'italica gente, non solo malata di cantafavole e di lotofagica "erba televisiva", ma dell'attesa che la soluzione venga dal solito deus ex machina, dalla trasformistica deroga degli azzeccagarbugli, dal gioco dei bussolotti, dalla morra e dall'enalotto. A lui basta darci avviso delle cose che vede, non disdegnando come giurista e come storico di incrociare i dati, di scoprire manovre, di dettare amare sentenze, di comparare istruttive messinscene.
Del resto, che cos'è il confronto con il passato se non un modo per sfuggire all'appiattimento bruto sul presente, per disseppellire brandelli di memoria congelata, per appellarsi ancora una volta alla risorsa "resistente" della ratio e del rigore intellettuale? Così va spiegato il richiamo iniziale non solo a Duccio Galimberti e ad Antonino Rèpaci, ma anche a Walter Benjamin. Mi pare fosse proprio Benjamin (di cui si cita qui fin dalle prime righe Angelus Novus) a giudicare un libro dall'indice dei nomi. Se così è, l'"errante cabalista moderno" avrebbe ben potuto condividere proprio a partire dal fondo la bontà di questo manuale di renitenza. Una splendida requisitoria che, nonostante tutto, sa intrecciare sul suo icastico telaio parole nette come giustizia e bellezza, logica e morale.
Giovanni Tesio
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