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Anno edizione: 2018
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Versi che interrogano la mancanza, il disorientamento, la solitudine seguita a un lutto, in un’atmosfera che ricorda, persino in alcune modulazioni formali oltre che in certe ambientazioni di interni, la Satura montaliana, permeata dalla sottile e penetrante nostalgia di una presenza-fantasma: assente nella concretezza della realtà, incombente nel pensiero e nel sogno. I segnali spia dell’abbandono si annidano ovunque, a indicare trascuratezza, disaffezione alle cose, abbattimento. Solo il rapporto con le “care ombre” viene testardamente cercato e nutrito, in abitudini e riti quasi morbosi, attraverso la frequentazione di ospedali e camere mortuarie, o il vagabondare tra ceppi e tombe di famiglia nei cimiteri, nell’ansia di recuperare legami affettivi troncati. Le relazioni sociali si riducono ormai alla frequentazione, smarrita e annoiata, di aule universitarie, convegni intellettuali, alberghi, stazioni e aeroporti, tra persone che rimangono indifferenti ed estranee, compitamente ipocrite (“Peso del mondo. / Qualcuno accanto?”). L’unica alternativa alla superficialità dei rapporti umani, alle “varie attività parassitarie” rimane il “Tenersi da parte. / Anche a rischio di passare per fesso”. Uno sdegno civile pervade i versi a cui Enrico Testa demanda la sua rabbia residua, schernendo “l’irridente sfacelo” di “tutti i fetori di Roma / e della repubblica intera”. Cairn, termine gaelico indicante il mucchio di pietre utilizzato sia come monumento sepolcrale sia come indicazione di percorso nei tragitti montani, rimane un monito che collega il ricordo dei propri morti al suggerimento di una via d’uscita nel labirinto del vivere. Le poesie di questa raccolta ‒ prive di artifici retorici, fatte salve rarissime rime sempre e solo utilizzate nelle chiuse ‒, testimoniano una fede superstite nella parola-abbraccio, “che dice ancora / quando non c’è più niente da dire”. Parola pronunciata “senza urlare”, limpida e mai pretenziosa, parola “Segnavia e segnavita”.
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