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Di cani, anche se non miei, musi, colori, nomi affiorano in ricordi incastrati tra eventi, luoghi e tempi diversi.
I cani, nella vita di Folco Quilici, hanno una lunga storia. Più lunga della sua. A partire da Slughy, una bellissima levriera che avendo la fortuna di vivere in casa con i suoi genitori l’ha visto nascere.
Slughy, che viene portata in Italia dall’Egitto dal padre dell’autore, non è che la prima protagonista dell’episodio di apertura che troviamo in questo lavoro, con il quale Quilici, viaggiatore, scrittore e regista, ci racconta di tutti i cani che ha incontrato e posseduto nella sua vita. Forse possedere non è il termine adatto. Il suo rapporto e quello di tutta la sua famiglia con questi animali è sempre stato di rispetto, di amicizia, di affetto.
Il libro raccoglie e ci propone una trentina di piccoli racconti che hanno sempre come soggetto “il cane”. Quilici ha girato il mondo per lavoro e ha avuto modo di fare dei felici incontri e di vivere interessanti avventure con questi straordinari “amici” a quattro zampe, che gli hanno continuamente confermato quanto siano capaci di fedeltà e riconoscenza e come queste due doti possano legare indissolubilmente uomini e cani.
Sarà un vero piacere, dopo Slughy, fare la conoscenza di una coppia eccezionale quale il terranova Ras e il maremmano Rio. L’assortimento e l’affiatamento fra i due era tale che riuscirono persino a creare un buffo incidente diplomatico fra il padre di Folco e un graduato del Reali Carabinieri. Andò in questo modo: di guardia al giardino di casa, Ras e Rio si erano dimostrati del tutto indifferenti all’intrusione di alcuni ladri (lasciandoli pure scappare) ma, in compenso, avevano inseguito i carabinieri costringendoli ad arrampicandosi sopra un albero per sfuggire al loro determinato e indignato inseguimento.
E che dire del randagio, sporco e scheletrico Leo, imbarcatosi “clandestinamente” nel 1952 a Santo Stefano sul peschereccio noleggiato da una spedizione guidata da Quilici in partenza verso il Mar Rosso? Salito a bordo nel buio della sera, attratto probabilmente dall’odore degli avanzi della cena, vi rimase fino a che venne preso il largo, senza che nessuno si accorgesse della sua presenza se non dopo molte ore di navigazione. Ovviamente rimase a far parte dell’equipaggio per un anno intero, sino alla fine del lavoro di ricerca dei componenti della spedizione.
Altro “personaggio” indimenticabile di questi racconti è Medoro, un cane di media statura, forte, muscoloso con un pelo corto e giallastro, che suscitò l’interesse di Quilici durante un viaggio in Polinesia. Interesse soprattutto dovuto al nome: ma come poteva un cane che viveva nell’arcipelago Tuamotu fra palme da cocco e scogliere coralline portare il nome di uno dei protagonisti del “Pinocchio” di Collodi ? La spiegazione è molto semplice: la storia di Pinocchio era stata spesso raccontata da un missionario vissuto laggiù e che era solito intrattenere i bambini del luogo proponendo loro fiabe occidentali. E così il nome di Medoro era rimasto impresso nell’immaginario degli Puamotu, la popolazione del luogo.
A cura di Wuz.it
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