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L’infanzia, la poesia, l’orfanità. Attraverso Pascoli e il barocco Lubrano – ma anche Celan, Kafka, Mallarmé, Jaccottet – una suggestiva riflessione sulle «vite» larvali e sulla loro scrittura che è seta di verme e vagito, ferita psichica e canto cieco di bimbi e di madri nel centro dell’addio. Se da un lato la poesia è riparazione, filo che riavvolge il tempo dei vivi e dei morti, dall’altro, la sua nenia non è un processo di rivelazione ma un lento denudamento di sé e di chi la scrive. Un corpo inerme avvolto nel tremore del proprio margine, soglia. «Il punto di partenza della poesia, scrive Bonito – non è il suo punto di partenza, ma quello che le resta». «È la forma-vagito del nostro abbandono, del nostro essere stati abbandonati». «La presenza di una semplice rima che fa voltare gli assenti verso di noi, nel bianco della nostra sera».
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