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Fin dalle prime pagine si ha la sensazione non di leggere, ma di ascoltare. Quando si dà "forma all'informe" il lettore-ascoltatore prende coscienza della propria posizione all'interno del testo: si accorge di essere in realtà dentro un "canzoniere di canzonieri", di camminare a fianco dell'autore nel "non-luogo" tangibile fatto delle voci dei tanti "Orfeo" e delle tante "Euridice". Euridice-Beatrice, Euridice-Laura, Euridice-Mosca, Euridice-Sylvia: le vediamo fagocitare l'io poetico diventando esse stesse "io" in uno "spazio-archivio", in una voce, in un oggetto, in un tempo. La catabasi dei loro amanti non le strappa al fato ineluttabile, piuttosto le conferma indissolubilmente legate (da sempre) a quell'essere già nella morte. Il lettore sbircerà attraverso molte porte lasciate socchiuse avvicinandosi, passo dopo passo, in un continuo faticoso progredire, all'esperienza finale della "Poesia", certamente aiutato e sorretto dalla conoscenza intima dell'argomento "morte-assenza". In definitiva la morte non è dei morti, ma appartiene ai vivi: chi resta porta in sé la morte stessa pur senza poter in alcun modo viverla se non nella "ri-creazione" dell'io in funzione della privazione. Possiamo dire che la morte è prerogativa del poeta (dell'artista in generale) e che questi è il solo che può crearla a immagine e somiglianza dell'uomo, portarla sull'unico piano della percezione umana, trasformando se stesso - se vogliamo - in uno sciamano (Orfeo); egli è l'unico in grado di condurci linguisticamente, letterariamente, emotivamente in un luogo che, di fatto, non esiste.
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