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I saggi qui raccolti ripropongono alcuni dei temi finora affrontati dall'autore nella sua carriera di studioso. Il filo rosso che li attraversa, reso adeguatamente dal titolo, viene sviluppato in modo esauriente dal saggio di apertura, nel quale, dopo essere stata ripercorsa la storia della parola "massa", sono passate in rassegna le sue più importanti concettualizzazioni, dalle "folle psicologiche" di Le Bon sino - in un'epoca in cui la televisione è il veicolo principe della massificazione - allÆhomo videns di Sartori.
Non poteva mancare, inoltre, un excursus, dal ritmo sempre vivace, sui principali tentativi di spiegare il rapporto delle masse con le élites e con i capi, a partire da brillanti osservatori della realtà americana come Calhoun, Tocqueville e Bryce, per arrivare a Weber, Michels e Schumpeter. Su Bryce, e sul suo lavoro più noto, The American Commonwealth (1888), Tuccari si sofferma nel secondo saggio, sottolineando la rilevanza della sua teoria della "classe politica", diversa dalle formulazioni "classiche", e ripresa, invece, nella descrizione dei "politici di professione" e della "macchina" del partito, dal Weber di Politik als Beruf (1919). I due saggi successivi sono incentrati, invece, sui rapporti tra Weber e Michels. Emergono, in particolare, gli argomenti volti a sottolineare la distanza della Führerdemokratie weberiana dai "nuclei di dottrina politica" che condussero Michels "per la china dell'opzione totalitaria". Emblematica, in tal senso, anche la differenza tra il partito di cui parlava Weber, pars di una totalità frammentata, e il partito michelsiano, "Stato in piccolo", "totalità ridotta e monolitica".
Il volume propone, infine, un'analisi condotta sulle note dei Quaderni gramsciani dedicate alla Teoria del materialismo storico di Bucharin. Nel '25, estendendo le dispense per un corso della "scuola interna di partito", Gramsci non formulò alcuna critica nei confronti della Teoria, intendendo, anzi, "ricalcarla", se non addirittura meramente "tradurla". A partire dal 1929-30, invece, rimproverò severamente Bucharin di non essersi liberato da un'interpretazione meccanicistica e deterministica del materialismo storico. Era avvenuto, dunque, un radicale ribaltamento di giudizio. Tuccari mette in luce come, in realtà, il testo del teorico bolscevico rappresentasse una critica molto netta del determinismo, inteso nel senso di "fatalismo", negazione della volontà umana quale fattore dell'evoluzione. Bucharin aveva altresì attribuito ai fenomeni sovrastrutturali un'importanza decisiva, considerandoli influenti "sulla base economica e sullo stato delle forze produttive". Ma Gramsci rilevò nell'opera di Bucharin proprio la mancanza di adeguate riflessioni in tale direzione, e insistette, in opposizione a un bersaglio fittizio, sulla rilevanza della dimensione volontaristica nella trasformazione sociale. La virata che separa l'adozione della Teoria nel '25 per la scuola del partito dalla "stroncatura" del '29-'30 si spiega, secondo Tuccari, con l'adesione di Gramsci alla polemica dei teorici stalinisti nei confronti del "meccanicismo", e con l'obiettivo di esprimere il proprio giudizio su Bucharin, a quel tempo, ormai, sconfitto politicamente da Stalin. In un certo senso, dunque, erano prevalse le ragioni del capo.
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