È indubbio che nell'ultimo decennio l'idea di diritto alla città abbia conosciuto un ritorno. Ma quanto questo sia legato alla ripresa degli studi radicali degli anni sessanta e settanta e, più in particolare, alla popolarità inossidabile di Henry Lefebvre, non è chiaro. Numerosi e ripetuti i richiami nel campo della geografia e degli studi urbani, qualche volta segnati da una semplicistica ricerca di genealogie possibili e legittimazioni teoriche, altre volte da una più interessata e coinvolta ricerca sulla costruzione teorica del sociologo francese. La sua eredità è uno dei nodi che il libro di David Harvey pone. Dei tre saggi qui raccolti, due sono dedicati a ridiscutere la nozione di diritto alla città, a quarant'anni dalla sua formulazione, e il terzo, teso a discutere i nessi tra urbanizzazione e crisi economiche globali, chiude anch'esso su questo punto. C'è molto di utile in questi saggi per ripensare alla città contemporanea, ma l'angolazione centrata sul diritto collettivo fatica a cogliere un aspetto che a me pare rilevante del riconfigurarsi dei diritti legati all'abitare in questa fase di trasformazione della città. C'è molto di utile. Innanzitutto la primazia dell'urbano. Chiara in Lefebvre, che come ricorda Harvey scrive Le droit à la ville nel 1967 (ripubblicato in terza edizione da Antrophos nel 2009), qualche mese prima delle rivolte del maggio Sessantotto e a cento anni dalla pubblicazione del primo volume del Capitale. Ricorrenza dichiarata dall'autore in apertura, a sottolineare un legame e uno scarto: lo spostamento del fuoco della riflessione dalla classe operaia ai movimenti urbani. E tutta la prima parte del volume di Lefebvre è una lode alla città: le idee (comprese quelle rivoluzionarie) nascono nella città. La città è al centro dei processi di accumulazione, di distribuzione delle ricchezze e dei movimenti. Lo studio sul movimento rivoluzionario della Comune di Parigi del 1871, così importante per Lefebvre, ha contribuito a costruire questa centralità. Ma quale città? Questo è un punto fondamentale per Lefebvre e per Harvey, e segna una distanza polemica con buona parte del discorso contemporaneo. Lefebvre scrive nell'anno di Tre o quattro cose che so di lei di Godard: è il mondo di prima ("la città che avevamo conosciuto") che sta scomparendo. Scrive nella consapevolezza che quel mondo non possa essere ricostruito. Nessun rimpianto. Chi reclama oggi il diritto alla città non raramente si colloca su un diverso orizzonte: assume una posizione conservatrice, guarda a una città che non c'è più, o forse non c'è mai stata; invoca il diritto alla città del passato, il diritto a tornare lì. Mentre è chiarissima la posizione di Lefebvre e di Harvey. Quel diritto si gioca nel presente. Non è (solo) diritto di accesso alle risorse che la città incarna, ma diritto "a cambiare e reinventare la città in modo più conforme ai nostri interessi e desideri". In un certo senso il diritto alla città è "un significante vuoto". "Tutto dipende ‒ scrive Harvey ‒ da chi lo riempie di senso". Sarebbe troppo ingenuo pensare di poter rivendicare in modo diretto il controllo di una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione che in questo momento sono globali, fortemente intrecciati ad aspetti economici e finanziari (e il terzo saggio lo chiarisce, insieme al volume recentemente tradotto di Harvey L'enigma del capitale, Feltrinelli, 2011). Senza che la globalizzazione cambi la natura dei processi di urbanizzazione: forma nella quale sono assorbite le eccedenze di capitale e di forza lavoro (qui è la cornice marxiana che si palesa nella sua forza). L'accento si sposta su chi "riempie di senso" l'idea di diritto: sui soggetti e sulle molte pratiche "ricche di possibilità alternative" che già sono nella città. Una eterotopia, quella di Lefebvre, diversa da quella di Foucault che delinea (come anche oggi piace dire a lefebvriani e non lefebvriani) "spazi liminali ricchi di possibilità". L'attenzione è su quel che la gente fa. Una "teoria del movimento rivoluzionario" che è il contrario della grande rivoluzione (di cui la Comune è esempio). Piuttosto "convergenza spontanea in un momento di 'irruzione' in cui diversi gruppi eterotopici vedono possibilità collettive". Su tutto questo (centralità dell'urbano, ricchezza di spazi liminali, convergenza e irruzione) c'è molta corrispondenza tra le posizioni di Lefebvre e di Harvey e il dibattito contemporaneo. Ma un aspetto sembra, come si è detto, meno capace di disegnare le condizioni del presente. Centrare sul diritto alla città come diritto collettivo non permette di cogliere una metamorfosi che trent'anni di neoliberismo hanno generato modificando in profondità la nozione di diritto. Uno spezzettamento del diritto che oggi è dichiarato e rivendicato in molte forme nelle nostre città. Una "polverizzazione" direbbe Alain Supiot (Lo spirito di Filadelfia, et/al, 2011). Qualcosa che fa riferimento all'individuo prima che al collettivo. Diritto ad abitare in piccole cerchie, "Entre nous plutôt qu'avec eux", come spesso ribadisce Donzelot, cogliendo in questa logica uno degli elementi di frattura della società urbana contemporanea. Diritto a curare in prima persona lo spazio collettivo che si ritiene proprio: costruendo su questa inversione un vero e proprio ossimoro. Diritto a una mobilità lenta, a un'agricoltura di prossimità, a un fare artigianale e associativo. Diritto a un ecologismo di maniera, a mantenere ambienti pittoreschi, a un'idea di villaggio bene incistata nella città contemporanea. Diritto alla privacy, alla non intromissione, a essere lasciati in pace. E, all'opposto, diritto alla condivisione, alle forme di superamento della solitudine che l'individualismo genera; così che un po' ovunque si torna a celebrare lo stare assieme in piccole cerchie. Diritti individuali, spesso contraddittori, negoziati a fatica nella città contemporanea. "Tra diritti uguali, vince la forza" è la celebre affermazione di Marx nel primo libro del Capitale. Perlopiù manca il contrasto intorno ai diritti neoliberisti alla città e all'abitare. Nessun antagonismo dichiarato. Come negli anni sessanta e settanta. Non c'è retorica di lotta. Forse anche perché i diritti neoliberisti non si reggono su un principio esterno di giustizia o su un'ideologia forte. Si accostano, rivendicano una loro autonomia, quasi un'indifferenza reciproca. Sono resi visibili dallo spazio che non si limita a metterli in scena, ma ne permette o ostacola l'attuazione. Incrociano quelle "pratiche ricche di possibilità alternative" di cui parlava Lefebvre, le elevano a potenza. E si accontentano. Cristina Bianchetti
Leggi di più
Leggi di meno