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La teoria economica e manageriale tradizionale e il giornalismo specializzato riconoscono alle imprese familiari (in cui una famiglia mantiene il controllo di una porzione di capitale sufficiente a influenzarne in misura significativa le strategie) una ridotta capacità competitiva, almeno al di fuori dei settori tradizionali a minore contenuto tecnologico. La loro, perciò, sarebbe una presenza residuale. In tempi più recenti, indagini empiriche, studi di business history e di economia aziendale, ma anche ricerche sociologiche, politologiche e psicologiche hanno complicato ampiamente il quadro, mettendo in luce l'estrema differenziazione nel mondo delle imprese familiari, nonché gli innegabili successi che molte di queste sono riuscite a centrare, anche in tempi assai recenti. Andrea Colli offre un'utile messa a punto della questione, muovendosi con competenza nell'enorme mole di materiali teorici ed empirici. Sottolinea come i limiti e le debolezze proprie del capitalismo familiare sono bilanciati da alcuni elementi di forza, tra cui la ricerca della stabilità, la preservazione di strategie di lungo periodo, la flessibilità e rapidità nelle decisioni e l'autonomia da risorse finanziarie esterne. Proprio queste qualità hanno consentito a quella tipologia di impresa di non esaurire la propria funzione nelle fasi di industrializzazione, ma di conservare un ruolo rilevante anche nelle odierne economie avanzate. Questo, almeno, è quanto si è verificato quando essa si è trovata a operare in contesti legislativi, politici, finanziari e culturali favorevoli. Così è accaduto in Europa continentale e in Asia, dove il capitalismo familiare persiste saldamente all'interno dei settori a elevata intensità di capitale della seconda e terza rivoluzione industriale. Esemplare, in tal senso, è il caso italiano, cui Colli dedica l'intero capitolo finale.
Alessio Gagliardi
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