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Anno edizione: 2013
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E’ bello, ed è anche una piacevole sorpresa il fatto che un filosofo difficile, il cui pensiero percorre strade che possono sembrare di una rarefazione astratta e ardua come quelle di pochi altri contemporanei, si occupi anche di problemi politico-economici, e dica la sua opinione sui fatti più concreti, anche su quelli di cronaca. L’attenzione del filosofo nel leggere la realtà è comunque congruente con il suo pensiero e viene ricondotta alla sua usuale linea razionale. Infatti, Severino avverte subito il lettore che questi scritti si muovono all’interno della “follia dell’occidente”, cioè il loro orizzonte presuppone ancora il divenire, non si preoccupano ancora di considerare che l’ente non può venire dal nulla per poi ritornarci a conclusione del suo ciclo di apparizione, per lui il pensiero politico ed economico si muove ancora nell’ambito del nichilismo. Il divenire del mondo è regolato, secondo Severino, da un’interazione tra forze che tendono a conquistarsi l’egemonia. La forza vincente dà e rappresenta lo “scopo” che ha il mondo in quel momento, e si serve delle altre forze minori come mezzi per raggiungere appunto lo “scopo”. Nel tempo gli equilibri variano, e le forze si scambiano i ruoli, questo avviene quando una di loro, incrementando la propria potenza, cessa di essere la forza di un mero “mezzo” e scalza dal suo ruolo lo “scopo” precedente. All’inizio (del mondo occidentale) lo “scopo” era quello della Politica, inteso come ” regolazione del vivere comune secondo un principio di verità” , si estrinsecava nella polis greca, e nelle sue evoluzioni che via via si sono affacciate nel mondo. La politica per raggiungere il suo scopo ha cominciato ad utilizzare il ” mezzo” dell’economia. Lo scopo dell’economia è quello di accumulare più beni possibili a qualsiasi costo. Ad un certo punto la forza dell’economia ha superato in intensità quella della politica, anche per la morte della verità, o della volontà di verità.
Il grandioso impianto teoretico e ontologico di Severino è per lo stesso, il vero logos, cioè il discorso epistemico che caccia con verità il dolore (come si dice nel canto innanzi all'ara nell'Orestea di Eschilo). Quando però Severino si occupa di società, di politica, di capitalismo, il suo discorso perde di brillantezza. Che c'entra l'eternità degli essenti col rovesciamento del rapporto mezzo- scopo che porterebbe il capitalismo a porre come proprio fine il potenziamento tecnico anziché l'incremento del profitto? Forse l'unica spiegazione parziale potrebbe essere che la tecnica come momento massimamente nichilista conduce alla identificazione di essere e nulla, e quindi capovolgerebbe il fine ideologico del capitalismo, ossia quello dell'incremento del profitto, per uno scopo tecnico. E se il capitalismo opera in un regime di scarsità di risorse, questo si scontrerebbe con la tecnica che invece è destinata all'espansione infinita della propria potenza. Queste ragioni appena addotte sembrano insufficienti per affermare la continuità e la coerenza tra la ontologia e la prassi severiniana. Pare piuttosto che quando parla di capitalismo, di politica, di cose pratiche, Severino attinga a mani basse dall'"Etica Nicomachea" di Aristotele. In tale testo lo stagirita tratta del rapporto tra l'azione e lo scopo che la definisce, quando parla del bene, della virtù e della felicità. Ogni azione è data da uno scopo che la definisce. Ad esempio il medico deve avere come scopo la cura della persona, non altro, non la ricchezza o la gloria. L'azione del politico ha come scopo il buon funzionamento della città. Se ad una azione attribuiamo uno scopo diverso da ciò che la definisce, allora quell'azione non sarà virtuosa, non ci renderà felici e non raggiungerà il bene. Aristotele mostra di avere una filosofia pratica, mentre Severino eccellente nel parlare del fondamento delle cose si smarrisce quando affronta i problemi pratici, chiedendo soccorso a Aristotele.
Il grandioso impianto teoretico e ontologico di Severino è per lo stesso, il vero logos, cioè il discorso epistemico che caccia con verità il dolore (come si dice nel canto innanzi all'ara nell'Orestea di Eschilo). Quando però Severino si occupa di società, di politica, di capitalismo, il suo discorso perde di brillantezza. Che c'entra l'eternità degli essenti col rovesciamento del rapporto mezzo- scopo che porterebbe il capitalismo a porre come proprio fine il potenziamento tecnico anziché l'incremento del profitto? Forse l'unica spiegazione parziale potrebbe essere che la tecnica come momento massimamente nichilista conduce alla identificazione di essere e nulla, e quindi capovolgerebbe il fine ideologico del capitalismo, ossia quello dell'incremento del profitto, per uno scopo tecnico. E se il capitalismo opera in un regime di scarsità di risorse, questo si scontrerebbe con la tecnica che invece è destinata all'espansione infinita della propria potenza. Queste ragioni appena addotte sembrano insufficienti per affermare la continuità e la coerenza tra la ontologia e la prassi severiniana. Pare piuttosto che quando parla di capitalismo, di politica, di cose pratiche, Severino attinga a mani basse dall'"Etica Nicomachea" di Aristotele. In tale testo lo stagirita tratta del rapporto tra l'azione e lo scopo che la definisce, quando parla del bene, della virtù e della felicità. Ogni azione è data da uno scopo che la definisce. Ad esempio il medico deve avere come scopo la cura della persona, non altro, non la ricchezza o la gloria. L'azione del politico ha come scopo il buon funzionamento della città. Se ad una azione attribuiamo uno scopo diverso da ciò che la definisce, allora quell'azione non sarà virtuosa, non ci renderà felici e non raggiungerà il bene. Aristotele mostra di avere una filosofia pratica, mentre Severino eccellente nel parlare del fondamento delle cose si smarrisce quando affronta i problemi pratici, chiedendo soccorso a Aristotele.
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