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Anno edizione: 2013
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Il grandioso impianto teoretico e ontologico di Severino è per lo stesso, il vero logos, cioè il discorso epistemico che caccia con verità il dolore (come si dice nel canto innanzi all'ara nell'Orestea di Eschilo). Quando però Severino si occupa di società, di politica, di capitalismo, il suo discorso perde di brillantezza. Che c'entra l'eternità degli essenti col rovesciamento del rapporto mezzo- scopo che porterebbe il capitalismo a porre come proprio fine il potenziamento tecnico anziché l'incremento del profitto? Forse l'unica spiegazione parziale potrebbe essere che la tecnica come momento massimamente nichilista conduce alla identificazione di essere e nulla, e quindi capovolgerebbe il fine ideologico del capitalismo, ossia quello dell'incremento del profitto, per uno scopo tecnico. E se il capitalismo opera in un regime di scarsità di risorse, questo si scontrerebbe con la tecnica che invece è destinata all'espansione infinita della propria potenza. Queste ragioni appena addotte sembrano insufficienti per affermare la continuità e la coerenza tra la ontologia e la prassi severiniana. Pare piuttosto che quando parla di capitalismo, di politica, di cose pratiche, Severino attinga a mani basse dall'"Etica Nicomachea" di Aristotele. In tale testo lo stagirita tratta del rapporto tra l'azione e lo scopo che la definisce, quando parla del bene, della virtù e della felicità. Ogni azione è data da uno scopo che la definisce. Ad esempio il medico deve avere come scopo la cura della persona, non altro, non la ricchezza o la gloria. L'azione del politico ha come scopo il buon funzionamento della città. Se ad una azione attribuiamo uno scopo diverso da ciò che la definisce, allora quell'azione non sarà virtuosa, non ci renderà felici e non raggiungerà il bene. Aristotele mostra di avere una filosofia pratica, mentre Severino eccellente nel parlare del fondamento delle cose si smarrisce quando affronta i problemi pratici, chiedendo soccorso a Aristotele.
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