Un tempo lontano i piccioni si gettavano in picchiata dalla Torre genovese di Galata a Istanbul: gareggiavano discoli e impavidi, ma non toccavano terra sollevandosi in volo sornioni al momento risolutivo. Il capo delle guardie, il capitano Solimano, al termine del suo mandato nella cittadina greca di Astros, dopo tanti scontri e violenze con i nazionalisti ellenici, ritorna alla Torre; la ascende con nostalgia, e intanto ritornano i ricordi di una giovinezza spensierata. La Torre di Galata, in questo romanzo lieve, evocativo, fascinoso che intreccia la grande storia con la piccola storia, è simbolo di una vita pacifica e serena. A Solimano piace un’esistenza discreta e pigra, intessuta di piccoli piaceri domestici; ama ascoltare le civette di notte quando è a letto con la sua donna; ama sostare sotto le tamerici guardando placidamente il mare. Siamo in Morea di Grecia, dove gli ottomani dominatori, musulmani, convivono in armonia con i greci cristiano-ortodossi: essi frequentano ad Astros l’Osteria Lagoudera, “luogo ecumenico” nel quale si incontrano amicizia e tolleranza, e si fanno grandi bevute. Il nazionalismo greco, però, romperà la pace quotidiana di quei luoghi bellissimi, aizzato da una famiglia magnatizia ellenica proveniente da Odessa, allora in Russia, nel 1822. Da quel momento avvengono strani omicidi, si spezza l’arco della solidarietà tra etnie diverse. Vendette, massacri, atrocità impegneranno i greci e i turchi, gli uni contro gli altri, sino alla più feroce disumanità, ma alla fine nel romanzo Il capitano della Torre di Galata prevarrà il dolce e giocoso rimpianto di un tempo felice. Cristiano Caracci con quella sua lingua mnemonica, vibratile e luminosa, che odora degli inchiostri di antichi libri di storia, riconferma le sue straordinarie doti di narratore che affabula immaginoso conquistando lo sguardo e il cuore del lettore.
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