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Il miracolo della prosa di Anton Cechov dura ancora dopo più di un secolo, in questi due magistrali racconti riproposti da Einaudi. La sua scrittura è in grado di mantenere uno stile elegante, pulito, lineare senza ricorrere ad alcuno stratagemma linguistico: non troviamo ricercatezze lessicali, frasi involute o programmaticamente ad effetto, sperimentalismi artificiosi. Solo il piacere della narrazione dei fatti, l'attenzione calibrata ai gesti e alle parole dei protagonisti, la sensibilità particolare con cui sa rendere ogni emozione. Quando racconta che sul lungomare di Jalta il maturo seduttore Gurov rimane colpito vedendo passare "una giovane donna bionda, di statura media, con un berretto, seguita da un volpino bianco", e decide così di mettere in atto una discreta strategia di avvicinamento, subito da grande scrittore approfondisce l'avvenimento esteriore suggerendo pudicamente questa intuizione psicologica: "Eppure c'è in lei qualcosa che dà pena". E dopo che i due hanno fatto l'amore: "In lei era rimasta la timidezza di prima, lo stesso impaccio, la stessa goffaggine dovuta alla giovinezza inesperta e un sentimento di inquietudine, come se da un momento all'altro dovessero bussare alla porta". E se i due amanti si incontrano sulla spiaggia: "Le foglie degli alberi non si muovevano, le cicale frinivano, e il rumore monotono, sordo del mare, che giungeva dal basso, parlava del riposo, del sonno eterno che ci attende. C'era già quel rumore prima che Jalta e Oreanda esistessero, e ci sarà sempre, altrettanto indifferente e sordo, anche quando noi non ci saremo più". Quella che doveva essere un'avventura stagionale diventa per entrambi la storia della vita: "sembrava loro che la sorte li avesse destinati l'uno all'altra e non capivano perché li aveva fatti sposare con altri; erano come due uccelli migratori, maschio e femmina, catturati insieme e messi in due gabbie separate".
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