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Nonostante mi aspettassi che l’autore si soffermasse di più sul tema del linguaggio, ho apprezzato il romanzo. La casa del protagonista e narratore è fin dalle prime pagine permeata da un alone di silenzio e mistero. La freddezza e il morboso interesse per la morte (ereditati dalla madre, altro personaggio enigmatico, repulsivo e affascinante al tempo stesso) danno al romanzo un’atmosfera da thriller. Un grande esordio.
Il romanzo ruota intorno al tema del linguaggio: la parola come invenzione e come trappola, come salvezza e come condanna. Protagonista è Luke, un intellettuale trentenne interessato alla neurologia e al cognitivismo, non solo per passione scientifica, ma soprattutto per il desiderio di penetrare nella psiche altrui, sondando contemporaneamente anche le abilità esplorative della propria mente. La domanda principale che Luke si pone è se la capacità di parlare sia innata o acquisita. Tale questione lo affascina dall’infanzia, da quando la sua amatissima mamma, perduta precocemente, gli raccontava la storia dell’imperatore mogul Akbar, il quale aveva fatto costruire un edificio in cui dei servitori muti dovevano allevare alcuni neonati, in modo che non arrivasse loro nessuna parola, impedendo di fatto ai bambini qualsiasi possibilità di comunicazione. Se, nella sua morbosa ricerca dell’origine della coscienza, da piccolo Luke dissezionava gli animali, crescendo comprende che il soffio vitale può essere reperito esclusivamente nel pensiero, e in ciò che lo esprime: la parola. La scrittura di Burnside, densa e precisa, sinuosa ma priva di pedanteria o autocompiacimento, segue con perspicacia psicologica il tortuoso avvilupparsi delle perversioni di Luke, sempre più coinvolto in un voyeurismo necrofilo e sessuale: “C’era qualcosa di stupendo nell’immobilità della morte, nella sua irreversibilità, ma ora volevo qualcosa di più di un cadavere. Volevo aprire l’essere vivente, vedere il battito del cuore e la circolazione del sangue… Volevo vedere com’era la vita quando finiva, e lasciava solo la materia inerte”. Un ottimo romanzo, dalla scrittura elegante e sostenuta, che non cede mai a volgarità o scaltrezze narrative, e indaga invece con controllata intelligenza i meandri della complessità mentale di un uomo lucidamente folle, riuscendo a offrire pagine di intensa poeticità nonostante i drammatici temi affrontati.
L'ennesima conferma del fatto che il detto "non giudicare un libro dalla copertina" sia più che vero. Questo libro, anzi libricino, in meno di 200 pagine contiene: scene di stupro, omicidi, vivisezione, abuso di bambini, torture sugli animali, esperimenti vari con un protagonista/narratore odiabile, morboso, malato e riesce ad essere comunque splendido! Scritto maledettamente bene. Se vi è piaciuto "Il profumo" o "Lolita", vi piacerà sicuramente anche "Dumb House"!
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