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Libro nitido e di grande accuratezza storiografico documentaria: anche se non è uno specialista di storia militare, Rusconi cerca di raggiungere la verità finale sul dibattuto e sofferto tema del tragico destino della divisione Acqui a Cefalonia. Avvalendosi di una larga documentazione storiografica, documentaria e memorialistica (italiana, tedesca e alleata), Rusconi ci dà conto dei tragici fatti, dei loro moventi, delle forze materiali e delle tensioni morali contrapposte, giungendo ad una esauriente ricostruzione. Ho trovato molto interessante anche il tentativo di dare un ritratto morale dei due protagonisti contrapposti, Gandin e Lanz, di fronte alla tragicità del momento. Sola lacuna, la mancata ricostruzione delle dinamiche dell'eccidio. Alla fine rimane nel lettore il desiderio insoddisfatto di ritrovare il senso soggettivo di quelle giornate, la grande e tragica tensione che dovettero provare i protagonisti: sotto questo aspetto, la ricostruzione di Rusconi è un po' fredda e intellettualistica. Utile può essere allora completare il quadro d'insieme, leggendo almeno il libro di padre Formato, che Rusconi stesso definisce onesto e credibile (Mursia)
Indubbia è l'autorevolezza dell'Autore. Essa ci assicura la correttezza e la meticolosità della ricerca su un episodio tanto grave. Finalmente viene autorevolmente confermata la versione dei fatti riportata da quanti, già da tempo, hanno presentato la tragedia di Cefalonia come il tragico epilogo dello sciagurato comportamento di quanti abbandonarono la Divisione Acqui al suo destino e di quanti "forzarono" la mano al generale Gandin. E' facile capire di chi fu la responsabilità "morale" dell'eccidio.
Seguo da anni la molteplice storiografia sulla tragedia di Cefalonia.Credo che quanto ci evidenzia il Filippini sia la versione più onesta e veritiera.In una isola, abbandonati da tutti, la intenzione di Gandin ,compromessa dalla faciloneria di alcuni ufficiali "ribelli",era più che giustificata!
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Fra il 15 e il 22 settembre 1943, nella piccola isola greca di Cefalonia, si consumava uno degli episodi più tragici della storia militare italiana. In quei giorni, infatti, la divisione Acqui, composta da 11.500 uomini e 525 ufficiali, affrontava una disperata battaglia contro le preponderanti forze tedesche, che non si limitavano a sconfiggere gli ex alleati italiani, ma, contravvenendo a ogni regola, scatenavano un odioso massacro. Delle 6.200 vittime italiane, soltanto 1.265 cadevano durante lo scontro; dovevano essere invece circa 5.000 i soldati e ufficiali abbattuti dopo essersi arresi. Da pochi giorni, per quanto in via provvisoria, la "guerra italiana" era formalmente finita: l'8 settembre, infatti, era stato ufficializzato l'armistizio con gli inglesi e gli americani. Fra le file del Regio Esercito si respirava un clima di smobilitazione, e il cambio di fronte che avrebbe fatto gridare i tedeschi al tradimento, per quanto fosse nelle previsioni di Berlino, non era ancora avvenuto (si verificherà nel mese di ottobre): l'Italia, semplicemente, sconfitta sul campo e costretta alla resa, abbandonava l'orrenda partita della guerra.
In quel momento, dunque, la divisione Acqui era parte di un esercito non belligerante, che si preparava ad abbandonare le posizioni conquistate per fare finalmente ritorno in patria. Le istruzioni ricevute dallo stesso generale Gandin, comandante del contingente, parlavano del resto chiaro: si trattava di "dire francamente ai tedeschi che se non avessero fatto atti di violenza armata, le truppe italiane non avrebbero preso le armi contro di loro, non avrebbero fatto causa comune né con i ribelli né con le truppe angloamericane che eventualmente fossero sbarcate. Le posizioni di difese costiere in consegna alle truppe italiane sarebbero state mantenute e difese per un breve periodo di tempo (...) fino alla sostituzione con truppe germaniche". Le cose andarono invece diversamente: i comandi tedeschi vollero imporre ai militari italiani la consegna delle armi, mentendo anche sul fatto che in seguito a ciò avrebbero facilitato il loro ritorno (è noto invece che le truppe italiane che in altre zone dei Balcani avrebbero accettato questo diktat, sarebbero state deportate in Germania). Gli ufficiali italiani, ma anche i soldati, pur avendo consapevolezza delle conseguenze del proprio rifiuto, non vollero sottostare a questa umiliante imposizione. Intendevano sì tornare in patria, ma con le loro armi: in sicurezza e con onore. Non si piegarono e furono sterminati.
Il dramma di Cefalonia, fin dai tempi del governo Parri, è stato così inserito fra gli episodi che vanno a costituire l'epica della Resistenza, anche perché si presta a rafforzare l'idea di una guerra di liberazione che coinvolse non soltanto i singoli cittadini che, nel vuoto di potere creatosi dopo l'8 settembre, scelsero autonomamente di darsi alla lotta; ma anche l'esercito, quale incarnazione dello stato e della patria stessa. Questa lettura è stata ripresa recentemente dall'attuale presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi: "Decideste consapevolmente il destino. Dimostraste che la patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia. Quella scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza di un'Italia libera dal fascismo". Sono questi alcuni fra gli argomenti su cui riflette Gian Enrico Rusconi, ricorrendo a documenti di provenienza italiana e tedesca e ripercorrendo la vicenda nei dettagli e fin dalle sue premesse, riuscendo così nell'intento di restituire alla dimensione storica un episodio che il mito resistenziale non consente di comprendere in tutta la sua complessità.
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