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recensione di Gorlier, C., L'Indice 1997, n. 6
Che manna per i sociologi, questo romanzo di Camerana, a mio avviso il più complesso ambizioso e riuscito di uno scrittore per molti versi unico nel panorama letterario italiano. Finora, non a caso, mi sembra che in questa chiave siano state condotte le letture di "Il centenario", e del resto legittimamente. Poiché non voglio rubare il mestiere a nessuno, mi accontenterò di toccare soltanto di passata questa prospettiva, evitando altresì un disperato tentativo di riferire della vicenda, o come volgarmente si dice della trama del romanzo di Camerana, la quale appare lineare nel suo sviluppo anche se si carica di diversi piani incrociati, di effetti specchio, nel segno di ciò che un critico americano, Joseph Tabbi, ha chiamato, nel titolo di un suo recente volume (il cui sottotitolo efficacemente suona "La tecnologia e la narrativa americana da Mailer al Cyberpunk"), "Il sublime postmoderno".
Se vogliamo, un poco sommariamente, applicare l'etichetta a Camerana, vi aggiungeremo, in parallelo, "il sublime postindustriale". E già che ci siamo, visto che la definizione di Tabbi è ricavata da Lyotard, aggiungiamo che il romanzo di Camerana si può legittimamente considerare "paralogico", alla Lyotard, in quanto mette in questione non soltanto i parametri comunemente accettati di una data realtà, dei processi cognitivi che la definiscono, e vengono tradizionalmente accettati, ma si avvale di una diversa procedura, sia cognitiva sia immaginativa.
Ma veniamo al punto. Un enigmatico signor Erwin sbarca da un treno in una stazione periferica (si noti) della città di Ligonto, apparentemente per uno scopo terapeutico o salvifico: soffre di anemia dovuta a strane emorragie, e spera di trovare cura adeguata. In effetti, egli si imbatte in una situazione di totale degrado che possiamo sommariamente chiamare postindustriale; a Ligonto, un tempo città industriale e, ce ne rendiamo conto, sostanzialmente monoculturale, il cuore dell'industria, un immenso arsenale noto come La Marescialla, si trova in totale paralisi e sfascio. In misteriosi sotterranei, forse, una classe "invisibile" - come è, per definizione, sin dalla cultura della Rivoluzione industriale, la classe operaia - lavora, ma in sostanza fondamentalmente La Marescialla ha cessato di produrre, e i Pattumeros, superstite spina dorsale della sua struttura tecnologica e manageriale, vivono quali superstiti, ridotti quasi a cloni, illudendosi di possedere ancora una funzione ormai larvale. L'idea di organizzare un centenario celebrativo tradisce dunque l'estrema mistificazione, poiché, come per le emorragie di Erwin, La Marescialla gradualmente si avvia alla propria decomposizione.
Erwin attraversa questo inferno e ne uscirà, con un'esperienza forse non autenticamente salvifica ma sicuramente in grado di rimetterlo in gioco, per affrontare nuove avventure, oltre che, per mezzo dell'autore, per raccontare questa. Solo i sopravvissuti raccontano, non così per la popolazione di Ligonto, a cominciare dal personaggio "altro", Parella, sua guida e preteso complice, mentre egli è complice frustrato della Marescialla. Confesso di aver brutalmente schematizzato una struttura complessa nella sua inesorabile e lineare progressione, ma questo non è, per fortuna, in alcun modo un libro "raccontabile", né riconducibile alla retorica dell'attualità, pur se, non a torto, in Ligonto si è identificata Torino e, nella Marescialla, la Fiat. Se accettiamo la dimensione paralogica, questi mi sembrano particolari non decisivi. Al contrario, decisivo va giudicato il discorso, al di là di ogni classificazione e/o mortificazione sociologica.
La scommessa vinta, la novità e direi persino l'unicità di questo romanzo, infatti, sta proprio nell'articolazione del discorso. In primo luogo, la favola, o anti-favola, pur nella sua scansione allegorica e nei suoi simboli rifiuta ogni forma di astrazione e, insieme, di concessione didattica. In secondo luogo, il popolo di Ligonto, che finisce per coincidere, monoculturalmente, con quello della Marescialla, si manifesta in una stretta relazione tra gesti, atteggiamenti, visione e linguaggio; anzi è linguaggio. Da molto tempo nella narrativa italiana e non soltanto italiana non ci eravamo trovati di fronte a una simile ingegneria (mi perdoni Camerana) di linguaggi, dal registro alto e persino iniziatico, maliziosamente ipotattico, a quello più corrente e banale, in un esperimento multilingue ricco e complesso. Ma l'osservazione vale anche per la tipologia dei personaggi, quelli che emergono, cioè, dal sottobosco del livellamento, e che ripetono i loro gesti, ormai fissi nel tempo, prigionieri del passato nel presente, disvelandosi nei nomi spesso ironicamente qualificanti. La visione del degrado, apparentemente futuribile ma radicato nel presente, l'ironia che va dal "nero" al comico quotidiano, il senso di smarrimento e di inganno, dominato da un potere mai raggiungibile, la finzione assunta quale pretesa identità, lo scatto parodistico (Camerana evita con eleganza le tentazioni catastrofiche e così le esorcizza, quasi ibernandole) sostanziano, appunto, un discorso senza precedenti, anche se taluni modelli si possono intravvedere e vengono, per così dire, corteggiati. Auerbach ci ha insegnato che le grandi allegorie sono realistiche. Così in questo romanzo: penso alla dimensione degli odori, simbolica e concreta, quegli odori che spesso comportano insieme fattualità e simulazione, concretezza e inganno instaurato dal potere. Quando, alla fine, Erwin riparte, ha con sé un unico accompagnatore, il lupicante, individuo privo ormai di ogni capacità altra che quella del tatto. Probabilmente l'abnorme, il "diminuito", suggeriscono l'estremo spiraglio di salvezza e di libertà.
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