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È arancio fiamma la copertina dell'ultimo Feltrinelli, collana "I Narratori", di António Lobo Antunes, e la storia ha la densità e la temperatura di un rogo. La voce narrante principale è quella di Paulo, un figlio ignorato scivolato nel mulinello della droga, che dall'occhio ciclonico di un disorientato rancore evoca le figure che hanno popolato la sua vita. Purtroppo questa scrittura è al limite della leggibilità: il filo balena e poi ripetutamente scompare, si affastellano nomi, vocativi reiterati con disperazione, immagini di rovina materiale e interiore, vaghi affioramenti mostruosi, come nei disegni dei piccoli pazienti psichiatrici. Non sappiamo se la psicoterapia cui Paulo accenna (il medico, lo psicologo, il disegno di prassi di una casa, di una famiglia e di un albero) sia in corso adesso o sia anch'essa una reminiscenza infantile, che si sovrappone al faticoso percorso di disintossicazione successivo. Sappiamo soltanto che non c'è appiglio quando a essere minacciata è l'identità dell'individuo, quando cioè "tutto brucia".
A consumarsi nel fuoco è innanzitutto la figura del padre di Paulo, Carlos/Soraia, che è il cardine paradossale del libro. Paradossale perché non è che un'evanescenza inseguita, oscura perfino a sé stessa, e questa fuggevolezza è concretizzata nel tratto dell'ambiguità sessuale ("un uomo che non era un uomo, una donna che non era una donna"), nella deriva del travestitismo come maschera e vendita di un corpo mai riconosciuto, protetto e perdonato.
Anche la figura della madre, Judite, non è che una nostalgia. Il rifiuto da parte del marito omosessuale la consuma e la vota all'autodistruzione. La maternità è un'intermittenza che si perde, più forte è il bisogno di un riconoscimento da parte del compagno, più bruciante è la condivisione del suo segreto, di quella giostra di suoi amanti che si avvicendano e lasciano andandosene una banconota sotto l'abat-jour, fino al colpo ultimo dell'abbandono.
Non c'è nulla dunque che Paulo possa disegnare per lo psicologo, soltanto il cedro sotto cui nella pioggia attendeva dalla finestra il segnale per rientrare in casa, dopo ogni prestazione del padre.
Eppure, ora che Carlos è morto, qualcosa ha mosso suo figlio a parlare, qualcosa lo incalza, e lo allerta di fronte al proprio destino di autoannientamento, in quel letto d'ospedale dove il suo corpo è affondato. Proprio in quell'immobilità si smuove e si sgrana il ricordo, come recupero identitario, ricostruzione. La "narrazione" prosegue accumulando visioni sparse di quella che dopo la fuga di Carlos da casa è stata, da parte ora della madre ora di Paulo, una ricerca disperata per camerini di night club, bassifondi, spiagge malfamate e quartieri dello spaccio, una vicinanza "rubata" al vortice malato di quella vita e all'Aids che dà i primi segni, riconosciuto e negato insieme: "Aiutami a scendere Rua da Palmeira che sono stanco Paulo, non sono dimagrito, non mi avanza stoffa in vita e sulla schiena, non mi preparo più lentamente del solito, i pizzi non mi sfuggono dalle dita, mancano ancora tanti anni Paulo (...) mi vedrai, in mezzo a un tango, dirti addio".
Paulo sembra essere, in qualche modo, un alter ego risorto di Nuno, altro figlio abbandonato al proprio destino da genitori ossessionati dai loro fantasmi e desideri, che muore di overdose nell'ultimo romanzo della trilogia di Benfica, La morte di Carlos Gardel. Ma sono molti i tratti di cui qui, forse per abitudine alla cifra stilistica dell'autore, o forse per un loro intrinseco valore estetico oltre che ideale, si avverte in qualche modo la mancanza rispetto alla trilogia. Quella Lisbona aveva una sua inequivocabile specificità, nei primi due volumi addirittura una sua "geografia forte", attorno a cui i ricordi dei personaggi si coagulavano ostinatamente, pur nel movimento dominante di perdita e decadenza, e pur nella malattia profonda di quel ritorno al passato. Invece la metropoli di "quando tutto brucia" è uguale a qualsiasi altra devastata periferia del mondo: meno nomi di strade e quartieri, la toponomastica affonda nell'informulabile della tragedia individuale, si nominano appena "le luci del Tago". Non c'è spazio dentro l'anima dei personaggi perché il luogo vi si materializzi, vi costituisca l'allucinato santuario del Giudice Istruttore e dell'Uomo del Trattato delle passioni dell'anima. Non c'è spazio nemmeno perché il pensiero si possa articolare: il terreno vitale del linguaggio si restringe sotto l'assedio del fuoco, le voci stesse di questa disturbata polifonia sono compresse insieme, si sovrappongono distorcendosi. Le frasi sono tronche, le relative mozze, persino le parole vengono trapassate e divise da altre parole.
Nel Trattato e nell'L'ordine naturale delle cose l'osmosi fra passato e presente era continua, e l'accumulo descrittivo (case, ambienti, figure umane con le loro patologie, animali) aveva un pesantore di naufragio, ma possedeva altresì una grottesca ricchezza, quasi una gioia sfigurata, bizzarra e spiazzante. Era difficile non restare colpiti da quell'architettura realistica sventrata a ogni frase dalla magia, da quei ponti metamorfici gettati di continuo tra i regni naturali. E poi da quell'apocalittico parlare "da sott'acqua", dove terre emerse e fondali sono ormai tutt'uno, "dove, se avessimo voluto, avremmo potuto invecchiare felici (...) potando i relitti di fregate e le carcasse di gabbiani (...) affiorando o sprofondando nel letto secondo il piombo dei sogni". Eppure il pensiero restava vitale, e nulla di tutto questo impediva l'affioramento dei punti di vista, delle fisionomie individuali, e lo snodarsi della trama, benché non lineare ma di limo stratificato, denso di indizi sepolti. Ed era la regia impeccabile nascosta dietro i mille narratori che puntava il suo fascio di luce, batteva da un romanzo all'altro il suo segnale Morse delle cose perdute (le cicogne che nidificano sulla dimora dell'infanzia, il mare verde sempre negato a Julieta, e mille visioni ancora).
Quella voce che nella trilogia disegnava un cosmo si affievolisce per far posto al referto clinico. In parte già La morte di Carlos Gardel " seguiva i personaggi con occhio più asciutto, filmico, ma quella maggiore lucidità è ora esplosa in un delirio che lo stile non riscatta più. Si viene inondati, si prova rabbia, fastidio, sofferenza.
Quando si ama un autore forse si tende a perdonargli tutto (o almeno a provarci), a insinuare per esempio che l'opacità di Che farò quando tutto brucia, la sua perdita di strutturazione e di potenza, siano una programmatica evoluzione, o l'esito più logico e consequenziale di una parabola anziché un incidente. Si fa leva sull'indiscussa capacità di auscultazione di questo scrittore "sensibile alle foglie", psichiatra di irrecuperabili pazienti-personaggi, e sul fatto che inoltre, proprio qui dove il ripiegamento intimistico è più netto, c'è una figura per cui possiamo provare a immaginare una direttrice di salvezza, mentre nei libri precedenti a cui si sta riferendo, chi scrive ha l'impressione che la fine del mondo si portasse dietro fino all'ultimo individuo.
Nei quasi trent'anni di attività di scrittore, soprattutto attraverso la tetralogia della storia portoghese (1981-1988, di cui Einaudi ha tradotto Le navi nel 1997), la citata trilogia (1990-1994) e Lo splendore del Portogallo (del 1997, tradotto ancora da Einaudi nel 2002), António Lobo Antunes ha tracciato il cammino di un paese intero: il regime salazarista, la guerra in Angola, la rivoluzione democratica, la decolonizzazione e poi la ricerca identitaria nella nuova cornice europea. La giuria che all'unanimità gli attribuì nel 2003 il Premio internazionale Unione Latina di Letterature Romanze lo qualificò, in virtù di questo percorso, di questo gesto "modernista" di trasfigurazione di un'epoca nel filtro della coscienza dilatata dell'individuo, come "la voce più significativa della realtà profonda del Portogallo" e sancì la sua posizione di spicco nel panorama europeo.
Attendiamo dunque senz'altro le traduzioni, oltre che dei lavori degli anni ottanta, anche delle opere successive al 2001.
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