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Il cinghiale cacciatore. Antropologia simbolica della caccia in Sardegna - Vincenzo Padiglione - copertina
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Il cinghiale cacciatore. Antropologia simbolica della caccia in Sardegna - Vincenzo Padiglione - copertina

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2
1994
1 gennaio 2000
312 p.
9788871444147

Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1989)
recensione di Gallini, C., L'Indice 1989, n. 7

"Ormai da un paio d'anni, in agosto o in settembre, quando, a seconda delle regioni, inizia la stagione venatoria, i cacciatori si trovano di fronte a un'amara sorpresa. Una variopinta folla invade i loro sentieri, li apostrofa con ingiurie, li deride. Con gran frastuono di campanacci, corni e tamburi, disturba gli appostamenti segnalando agli uccelli che il predatore è in agguato. Se il cacciatore rinuncia al suo progetto, gli viene offerto un fiore in segno di pacificazione".
Siamo in Sardegna, e non si tratta solo di caccia agli uccelli. Quella che i giovani ambientalisti contestano è tutta la caccia, e in particolare quella che nell'isola è considerata l'unica caccia degna di un uomo: la caccia al cinghiale. Non è una contestazione n‚ marginale n‚ episodica. La caccia al cinghiale è per gli uomini il rito collettivo fondamentale, che ne fonda e ribadisce gli ideali di virilità e di socialità, è la battuta stagionale e assieme l'affabulazione quotidiana che ne sostiene e alimenta i significati. Come ai tempi di Emilio Lussu, giovani adulti e anziani di villaggio, tutti ne sono passionalmente coinvolti. Inoltre, e più di ieri, dalla città ne vengono attratti colletti bianchi d'ogni genere, in cerca forse di nuovi blasoni di identità perdute.
I nostri cacciatori - cacciati dagli ambientalisti subiscono dunque una contestazione radicale. La subiscono sotto le forme di una significativa legge del taglione: vengono perseguitati infatti negli stessi modi da loro usati per braccare la preda facendola impazzire dal terrore. Il momento-vortice della battuta all'animale selvatico è caratterizzato da un rumoroso inseguimento, in cui al latrare dei cani (ecco perché il tutto si chiama 'canizza canea') si accompagna il clamore discorde degli uomini che gridano e producono rumori disarticolati e ritmi scatenati tratti da strumenti non melodici (a fiato e a percussione) e persino impropri, come bidoni, barattoli, pentole, coperchi, ecc. Mortifera "caccia selvaggia" che si prolunga nei miti di schiere notturne di defunti, cavalcanti tra il latrare dei cani, per il terrore e la morte degli uomini, la 'canizza' venatoria è assieme funzionale e simbolica. E non a caso serve da modello per - ma a sua volta si modella su - altre cacciate di uomini, declinate però su registri beffardi. Così a Carnevale quando usa evocare il disordine ed esorcizzare le anime dei morti con grandi 'chiarivari' per le strade dei villaggi. Oppure - e in questo caso il rito si chiama 'serenada', oppure 'corredda', "cornetta" - quando clamorosamente si deride e sbeffeggia chi abbia compiuto colpevoli eccessi di sesso e di potere e lo si perseguita come si fa' per quell'animale, che viene rappresentato come il massimo dell'asocialità, della violenza, della sessualità incontrollata. E se nella selva il gioco con il cinghiale, il 'Solitario', non può che portare alla sua uccisione, nel villaggio, tra uomo e uomo esso assumerà le forme di un braccio di ferro dalle più varie conseguenze possibili: l'espulsione del reo, costretto a lasciare per sempre il paese, o la sua reintegrazione, previo simbolico gesto di riscatto della persona penalizzata che, trasformata in ospite liberale, offrirà a tutti da bere.
Di tutto questo gioco, gli ambientatalisti stravolgono le carte. Cacciano il cacciatore dal suo territorio per denunciare eccessi e ingiustizie da lui compiuti non tra gli uomini, ma tra gli animali. E l'offerta del fiore, che non ammette forma di restituzione simbolica, significherà la sottomissione dell'uomo alle leggi della selva, il riconoscimento dei suoi diritti. Quello che forse ancora l'ambientalista non sa è che la sua contestazione non mette soltanto in causa il rapporto tra uomo e natura, ma inevitabilmente rimette in discussione relazioni sociali, pratiche e rappresentazioni simboliche che stanno dentro il rito della caccia, una volta che lo si intenda come "fatto sociale totale".
E questo il percorso attraverso cui ci conduce, partendo dai dati di una consistente ricerca sul terreno condotta con la tecnica dell'osservazione partecipante, "Il cinghiale cacciatore", che inaugura la nuova collana "Antropologia culturale" diretta da Tullio Tentori. Il libro già nel titolo allude a quel complicato gioco di affrontamenti e persino di scambi di parti tra uomo e animale che è oggetto della sua analisi. Significativamente sottolineando "Antropologia simbolica della caccia in Sardegna", l'autore delimita con precisione l'ambito del suo studio: la caccia al cinghiale come rito e come affabulazione mitica iscritti all'interno di un complesso codice simbolico, di cui ci condurrà a decifrare segni e attori sociali.
"I lavori di molti antropologi - scrive Keith Thomas in "Man and the natural World", Londra 1983, libro fondamentale sull'argomento, che attende ancora di essere tradotto - fanno pensare che sia una tendenza permanente nel pensiero umano quella di proiettare sul mondo naturale (e in particolare sul regno animale) categorie e valori provenienti dalla società umana, per poi tornare a servirsene per criticare e rafforzare l'ordinamento umano, giustificando qualche aspetto particolare, sociale e politico, con l'affermazione che esso sarebbe più 'naturale' di tutti gli altri possibili".
Pensare l'animale, rappresentarlo, significa dunque creare un altro - da sé, che nello stesso tempo è un sé medesimo, in un contemporaneo e interscambiabile bilanciarsi tra identità e alterità. È pur vero che nella moderna città industriale l'animale non costituisce più quel bene referenziale, sia pratico che simbolico, che appare invece in società diversamente orientate sotto il profilo economico e che dall'animale (cacciato o allevato) traggono parte essenziale del loro sostentamento. Nuove e patetiche, pur sempre possessive, antropomorfizzazioni le riversiamo oggi sui cani e gatti di casa, ai quali "manca solo la parola", ma la carne che mangiamo ce la dobbiamo rappresentare come esangue pezzo di proteine il cui taglio ci richiami il meno possibile l'esistenza reale dell'animale allevato in massa ed ucciso. Ma proprio questo allontanamento tra noi e il mondo della natura viva ha posto anche le condizioni per cominciare a riflettere sulla sua autonomia ed anche per interrogarci sulle ragioni e sulle forme dei vari processi di antropomorfizzazione dell'animale. Ed è molto significativo che proprio in questi anni '80, segnati anche dalla crescita sociale dei più diversi movimenti ecologisti, storici ed antropologi comincino ad interessarsi al rapporto uomo - animale come questione dotata di una propria specificità, i cui vari aspetti a loro volta siano da verificare e comprendere nel variare dei luoghi e dei momenti della cultura degli uomini.
Sono queste anche le motivazioni che muovono la ricerca di Padiglione. Il quale non nasconde le sue simpatie per gli ecologisti. Ma rifiuta anche di attribuire al cacciatore - ad ogni cacciatore - la facile etichetta di boia sanguinario, che porterebbe diritti a riconoscere l'esistenza nell'uomo di un profondo, ineliminabile, "naturale" istinto ad uccidere. Studiare la caccia come momento culturale dovrebbe dunque liberarci dall'angoscia di essere degli eterni assassini.
Della caccia - almeno della caccia al cinghiale in Sardegna - più che l'uccidere diventa allora significante l'immaginare, il perseguire l'immagine creata, il drammatizzare, collettivo e formalizzato, lo scontro con un animale, che è assieme reale e fantasmatico. E nel grande teatro della selva sarebbe tutta una società pastorale che metterebbe in scena il rito di una vittoria sul selvatico in quanto rappresentante di ogni essere - umano o animale - sito al di fuori di ogni processo di domesticazione o socializzazione.
Riconoscere e decifrare tutti gli elementi che compongono questa trama simbolica non è certo semplice. Rintracciarli tutti, ad uno ad uno - ogni ricercatore lo sa, ma pochi lo fanno sul serio - significa cercare e perdersi, proprio come un cacciatore, per poi riannodare le fila, accostare e distinguere per poi riunificare, stando ben attenti a non confondere i piani di interpretazione: quello delle pratiche e dei discorsi simbolici, con la loro logica interna, e quello delle funzioni sociali, coi loro rinvii ai soggetti ed ai ruoli. C'è anche un terzo piano di cui Padiglione vuol tener conto; quello relativo all'ipotesi sul tipo di personalità di base che si determinerebbe all'interno del codice simbolico analizzato. Ma mi pare che su questo punto (fortunatamente abbastanza marginale rispetto all'impianto della sua ricerca) l'autore corre talvolta il rischio di incappare in quegli slittamenti che negli altri casi era così ben riuscito ad evitare. Per quanto ricco e complesso sia quello che nel saggio sulla caccia si prende in esame, un codice simbolico non coincide, 'tout court', con quel più vasto e articolato sistema culturale cui si attribuisce in genere la funzione di plasmare una personalità di base. E forse anche il libro guadagnerebbe da un'operazione, per così dire, di sfrondatura da certe ridondanze esplicative che possono disturbare la lettura.
Ma veniamo agli aspetti più seduttivi del "Cinghiale cacciatore" e all'universo culturale che ne emerge. Anzitutto, la campagna di caccia grossa, come caratteristica società maschile che si struttura in modi analoghi a quelli di altre forme della socialità pastorale isolana e che si articola, al proprio interno, secondo gerarchie di saperi, competenze ed etiche che spesso riflettono ulteriori strutture secondo classi d'età e persino secondo ceti sociali e a sua volta, la piramide che ha al vertice i cacciatori e alla base i battitori, si allargherà fino ai cani, cui si richiedono specifiche abilità e doveri, si attribuiscono nomi di battaglia e narrazioni di epiche imprese. E poi i racconti di caccia con le loro bugie, che non sono bugie ma necessaria finzione rituale, fondamentale per la costruzione di scenari mitici e la messa in atto di relazioni di complicità e di concorrenza tra persona e persona, gruppo e gruppo.
Ed ecco finalmente lui, 'su Sirbone', detto anche 'il Solitario', in tutta la sua corposità reale e immaginata. Ma attenzione: 'su Sirbone' è e non è il cinghiale. Una cosa è l'animale in natura, altra cosa è l'immagine simbolica che gli uomini se ne fanno. I due piani non coincidono di necessità. I termini sardi in uso per il cinghiale - osserva Padiglione - non operano sostanziali differenze tra maiale e cinghiale quando di quest'ultimo si vogliano descrivere le caratteristiche individuali proprie del dato esemplare che si abbia sotto gli occhi. Ma cinghiale diventa 'Sirbone' o 'Porkabru' (porco bianco) quando lo si descriva in termini di specie: ed è qui che inizia il piano di quella simbolizzazione che farà di lui una gran "brutta bestia" demoniaca. E proprio attorno a questa "brutta bestia" si incentrerà la caccia come rito. Insomma, una duplicità di logiche rappresentative che opera in noi molto più frequentemente di quanto non si voglia riconoscere: basti pensare a quello straordinario Squalo Bianco, vagante tra i mari di Portofino e i nostri domestici schermi televisivi...
Ma torniamo a 'su Sirbone', in quanto animale simbolico, simile e diverso dal maiale (allevato in casa, dalle donne, come un bambino) e il porco (allevato brado, da porcari simili a banditi): animali tutti situati in una catena di opposizioni tra caccia e allevamento, domesticità e selvatichezza e, in ultima analisi, tra socialità e asocialità. All'estremo polo negativo, la nostra "brutta bestia", imparentata col demonio e da lui marchiata col suo inconfondibile segno. Corpo immane e violento, candido come quello di Moby Dick, lo caratterizza una forza incontrollata e una altrettanto incontrollata sessualità, che esploderebbe al loro massimo nel momento della battuta. La quale battuta - è questo un punto che viene sottolineato con tutta l'enfasi che si merita - è fatta apposta per trasformare il cinghiale da quell'animale pacifico che è in natura nel terribile 'Sirbone' violento e aggressivo solo per il terrore messogli in corpo dagli uomini. È dunque un fantasma umano quello che viene evocato nella caccia per essere poi ritualmente esorcizzato. E anche per questo, il rito non potrà conchiudersi qui, ma dovrà prolungarsi in altre azioni simboliche e socializzanti che concernono il trattamento delle spoglie della vittima, la divisione e la distribuzione delle sue parti, le modalità (maschili e femminili) di cottura, la fabbricazione dei trofei di caccia e perfino la costruzione di immagini fotografiche della "brutta bestia", ormai doma e banalizzata, cavalcata da un bambino e con una mela in bocca.
Di certo ha ragione Vincenzo Padiglione quando ci conduce a leggere tutto l'arco della caccia al cinghiale come una grande "simulazione di scenari sociali" della cui varietà non si riesce a dar conto nella recensione di un libro così fitto di esempi e riferimenti di ordine contestuale. E credo sia riuscito nel suo intento, muovendosi in territori di non sempre facile decodificazione. Quello che ne esce è uno spaccato culturale di un certo spessore, che evidentemente trascende l'esempio esaminato. Per nostra fortuna però l'autore ci lascia anche intendere che capire le ragioni culturali del cacciatore non significa di necessità condividerne i virili modelli di riferimento. E se in una luminosa mattinata di settembre mi trovassi a percorrere i profumati sentieri del Supramonte e capitassi in mezzo alla cagnara di due diversi 'chiarivari', saprei molto bene tra quale dei due scegliere. E chissà, mi piacerebbe anche tirare un fiore al cinghiale. Piano, però. Per non spaventarlo.

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