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Romanzo ambizioso e lunghissimo (quindi è ambizioso anche il lettore!) che racconta un pezzo di New York negli anni Settanta. I personaggi non sono tantissimi (tanti, sì, ma non così tanti da creare difficoltà nel ricordare chi è chi) ma coprono mille aspetti diversi della storia e dell'umanità di questa metropoli. Impossibile riassumere, vi basti sapere che i vari fili si intrecciano in modo non banale e non forzato fino all'exploit finale, che avviene durante il celebre black out del 1977 (forse le pagine meno convincenti, devo ammettere). Passiamo quindi da un professore afroamericano del sud gay e aspirante scrittore all'erede di una ricchissima famiglia wasp, da un'adolescente punk appassionata di fotografia a un mercante d'arte tedesco, da un giornalista tormentato a un detective invalido a una figlia di immigrati orientali a un professionista dei fuochi d'artificio. Molte persone, molti ambienti, molte storie. La narrazione non è cronologicamente lineare: a volte l'autore ci anticipa qualcosa, spesso si produce in clamorosi flashback, anche nella parte finale. Nonostante tutto questo, non ho trovato il romanzo difficile da leggere. Richiede tempo, attenzione, dedizione, questo sì. Ma si può fare. Ammetto che un romanzo di mille pagine magari non sia particolarmente allettante, ma vi consiglio di superare i pregiudizi! :)
Grande romanzo: descriva una New York oscura, randagia, viva e pulsante sulla scia dei grandi contemporanei DeLillo e Auster.
Compratelo, leggetelo e ammiratelo. Scorre come un fiume. 1000 pagine volano via come fossero 400
Recensioni
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Città in fiamme di Garth Risk Hallberg – un selvaggio tuffo dentro la desolata confusione della New York dei tardi anni ’70 – è celebrato come il migliore e più grande (anche in senso letterale) romanzo d’esordio dell’anno. La cosa più stupefacente a proposito di Città in fiamme è che il suo autore prima del 1978 non era nemmeno nato: è originario della Louisiana ed è cresciuto, figuratevi, nelle pianure costiere del North Carolina.
Hallberg, un rispettato critico letterario, ha passato l’adolescenza a Greenville: «una piccola città universitaria che è nella classifica di Playboy dei migliori party scolastici», dice. «Non mi sono mai davvero sentito a casa, lì». Hallberg ha trovato rifugio in Jack Kerouac, in Allen Ginsberg, e nella “supernova” culturale dell’era Ed Koch, sindaco di New York per tre mandati dal 1978 al 1989. «Nella mia città, a 14 anni ero considerato il beatnik locale», dice. «La scena di New York mi appariva come un paesaggio fantastico. Mi piaceva pensare che tutte le persone che non appartenevano ad alcun altro posto, in qualche modo si ritrovassero lì».
L’idea dietro Città in fiamme è venuta a Hallberg nel 2003, mentre era su un pullman Greyhound diretto a New York: un pellegrinaggio che era iniziato quando aveva 17 anni. Nel momento in cui era comparso il profilo irregolare di lower Manhattan, sul suo iPod era partita Miami 2017, la canzone di Billy Joel. «Non l’avevo mai sentita prima», dice Hallberg. «Rispetto Billy Joel, ma non sono il tipo di persona che prende e si mette ad ascoltare Il meglio di Billy Joel». Quella canzone, pubblicata nel 1976 ma narrata da un momento nel futuro, parla della distruzione a cui New York sarebbe stata condannata da lì a quarant’anni. Per Hallberg è stato come se il passato e il presente – sostanzialmente il 1976 e l’11 settembre 2001 – in quel momento crollassero davanti ai suoi occhi. «C’è un preciso immaginario sui roghi che venivano appiccati negli anni ’70, e ho realizzato: “Questa canzone parla anche di oggi”. Ho buttato giù subito un’intera scena, e nel giro di dieci minuti avevo l’essenza della storia. Hallberg è tornato sull’idea nel 2007, quando con la moglie si è trasferito a Brooklyn, dove la coppia vive ancora oggi con i due figli piccoli.
Città in fiamme utilizza un singolo episodio di cronaca – la morte di una ragazzina a Central Park durante la notte di capodanno del 1976, per un colpo di arma da fuoco – per esplorare le vite di una miriade di newyorkesi: i colletti bianchi di Wall Street, due fratelli dell’alta società in cattivi rapporti, anarchici dalla molotov facile e ragazzini perduti che vivono alla periferia della nascente scena punk. Mentre l’inchiesta sull’omicidio procede, questi personaggi sono attratti l’un l’altro, per finire dentro il caos del Grande blackout del 13 luglio 1977 – l’oscurità perfetta, da cui solo alcuni di loro riusciranno a uscire.
Hallberg ha ottenuto un anticipo da record sui diritti del romanzo: quasi 2 milioni di dollari. Ma Città in fiamme è davvero quel genere di libro, così raro e speciale: è un intero universo, interamente abitabile, che riflette le nostre esistenze e al tempo stesso offre un’esaltante possibilità di fuga dalle stesse. «Per me», dice Hallberg, «questa città non era solo un posto dove lavorare, era un luogo dove sognare. Voglio che tutti possano sperimentare il mio stesso senso di libertà». Voto 4/5
Recensione di Julia Holmes
Un’opera immensa, che manda bagliori sinistri e bellissimi, come la volta in penombra di un foyer dal quale siano appena andati via tutti quanti, giusto un attimo prima del nostro arrivo.
“Un romanzo dall’ambizione travolgente che lascia con il cuore in gola – un romanzo che testimonia il talento sconfinato e instancabile del suo autore” - Michiko Kakutani
La città è marcia. Un verminaio brulicante la corrompe dall’interno, e non c’è smalto che possa nasconderne i guasti.
La città è nuda. Le mille luci che a lungo ne hanno disegnato l’iconica skyline vanno spegnendosi una ad una, perché nessuno si è preso la briga di pagare la bolletta.
La città è sola. Abbandonata a se stessa, naufraga come una medusa di Géricault alla deriva fra le fredde correnti dell’Hudson e dell’East River.
La città è in fiamme. Basteranno mille pagine per soffiare sulle braci del fuoco che arse New York nel 1977 e dalle cui ceneri la città risorse, cambiata – e forse perduta - per sempre?
“Città in fiamme” è il falò attorno al quale sta danzando l’intera comunità editoriale americana.
È il libro che mancava; il libro che bisogna assolutamente leggere, compendio di un momento storico le cui eco ancora allagano il nostro immaginario, come acqua che entri da una falla mal riparata nello scafo della nave sulla quale rolliamo da quasi mezzo secolo.
È, quello scritto da questo trentasettenne dal profilo asciutto e aquilino come quello di uno degli eroi punk di cui racconta, un romanzo che non fa nulla per dissimulare la sua grandezza, e in questa ammirevole ambizione cova anche il seme del suo possibile fallimento.
Sappiamo fin dalle prime pagine che non potremo prendere sottogamba la storia di cui Garth Risk Hallberg ci chiama a testimoniare, ma se il (lungo) viaggio sarà valso il prezzo del biglietto, potrà deciderlo solo chiunque decida di compierlo per intero.
Quel che può essere detto della storia senza che il piacere della lettura ne venga alterato o guastato, è pressappoco questo: New York, Capodanno 1977. Le traiettorie di un pugno di personaggi si dipanano à rebours a partire dal ritrovamento del cadavere di una ragazza in Central Park.
Questa, negli ultimi giorni di vita aveva frequentato, insieme ad un suo amico innamorato di lei, un gruppo di punk, capeggiati da una figura carismatica e sfuggente. Era anche stata l’amante di un arrembante e cinico finanziere di Wall Street, appena separatosi da una ricca ereditiera a sua volta sorella di un pittore omosessuale, legato ad uno scrittore trasferitosi a New York nella speranza di potervi attingere la materia per dar vita – guarda un po’ che coincidenza - al Grande Romanzo Americano.
Ma “Città in fiamme”, al di là della storia cui dà forma, è soprattutto l’elegia per un tempo mancato di un soffio, e nella cui luce ha prosperato, struggendosi vanamente, un’intera generazione: l’autore è nato poco più di un anno dopo i fatti di cui narra, e in quello scarto limitato - eppure incolmabile - si annida la tensione che informa questa poderosa architettura narrativa.
Ci sono i Television di “Marquee Moon”, i Suicide di Martin Rev e Alan Vega; ci sono le tinte livide della Bowery e del Bronx ancora non rischiarate dalle campiture fluo dei graffiti di Basquiat e Keith Haring.
C’è il Don DeLillo di “Great Jones Street”, c’è “Chiamalo sonno” di Henry Roth; ci sono “Watchmen” di Alan Moore e tutta la vulgata postmoderna con il suo super-metabolismo di formati e suggestioni eterogenee, annidate fra le pagine con la materica presenza che hanno le foglie nell’erbario.
C’è – su tutto - una città all’ipogeo della sua parabola storica, che nel fango e nella polvere ha trovato però un humus straordinariamente fertile.
Tutto questo c’è perché c’è stato: e per proprietà transitiva d’ora in avanti ci saranno stati – e ci saranno per sempre – anche l’amore difficile fra William e Mercer, quello inespresso di Charlie per Sam; i dubbi e l’arroganza di Keith e la diafana, triste bellezza di Regan. O non è forse questa, la letteratura?
Si finisce forse per amare il tanto che c’è di imperfetto, in questo romanzo, più di quanto non se ne ammiri il disegno possente e grandioso. Risk Hallberg si è affacciato sull’affollato panorama della scena letteraria americana calando sul tavolo una scala impossibile da ignorare per croupier e giocatori. Ma la sua è una di quelle giocate di cui sono lastricate le strade dell’inferno: qualsiasi cosa il nostro decida di fare d’ora in avanti, dovrà misurarsi con le altezze vertiginose che ha attinto fra i serbatoi d’acqua sui tetti attorno a Union Square, e ne uscirà probabilmente con le ossa rotte.
Garth Risk Hallberg è riuscito a comporre, sotto un’egida narrativa di eccezionale nitore, le suggestioni e le eco di un’epoca in cui, forse per l’ultima volta, la violenza e l’esclusione si sono fatte lingua, e hanno saputo cantare sé stesse sugli accordi grezzi di una chitarra punk.
E “Città in fiamme” è un’opera immensa, che manda bagliori corruschi, sinistri e bellissimi, come la volta in penombra di un foyer dal quale siano appena andati via tutti quanti, giusto un attimo prima del nostro arrivo.
A cura di Wuz.it
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