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Anno edizione: 2012
Anno edizione: 2006
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Osservava qualche tempo fa Salvatore Settis (in Futuro del «classico», Einaudi, 2004) che meno si studia il greco e il latino e sempre più, al contrario, si consolida nella cultura pubblica un'immagine delle civiltà classiche sclerotizzata e convenzionale; buona al massimo per assurgere a bandiera della proclamata superiorità della civiltà occidentale, a sua volta, aggiungiamo noi, rappresentata con modalità altrettanto sclerotizzate, sempre uguale a se stessa e in nulla comunicante con le altre.
Niente di più lontano dalla prospettiva di Roberto Andreotti, giornalista culturale che ai classici presta da parecchi anni un'attenzione tutt'altro che cursoria, le cui radici affondano nella "meglio gioventù". Sui classici, infatti, Andreotti si è intensamente formato, laureandosi in filologia latina a Pisa. Studi impregnati di solidissima erudizione tedesca, rievocati nella densa introduzione a questi Classici elettrici, che raccoglie una selezione tra i tanti interventi sui classici latini e greci usciti soprattutto su "Alias", inserto letterario settimanale del "manifesto", e raggruppati in undici capitoli, da Omero al tardoantico. "Elettrici", perché "l'energia del moderno entra sistematicamente in frizione con le letterature classiche"; insomma, proprio non c'è posto in questo libro per i classici mummificati di tanta tradizione scolastica e non solo ("ah, i classici!
", interloquivano nel bel tempo andato le insegnanti di ginnasio), ma neppure per letture sbarazzine, ammiccanti alle mode del momento. Non manca di ricordare, Andreotti, che la padronanza dei testi antichi esige un notevole bagaglio di conoscenze analitiche, di cui non è possibile fare a meno, se si vuole davvero capire un testo scritto in una "lingua morta"; ma sa anche, altrettanto bene, che come ogni studio storico-critico che non si risolva in erudizione inerte, anche quello relativo al mondo antico si è sempre intrecciato con le visioni del mondo delle varie generazioni di lettori che vi si sono dedicate; lettori che su quei testi inevitabilmente proiettano i propri valori e anche il proprio gusto estetico (i semiologi parlano di "trasvalutazione"). Alla filologia il compito di salvaguardare i diritti dell'opera contro gli arbitri interpretativi; ma per essere davvero moderna, essa non può rifiutare le domande e le riflessioni della cultura contemporanea.
Non stupisce, allora, l'invito a rileggere l'epico scontro greci-barbari narrato da Erodoto tenendo presente come la (prima) guerra del Golfo è stata raccontata dai giornali; o le Confessioni di Sant'Agostino con la lezione di Roland Barthes, che il "mezzo del cammin di nostra vita" non è un punto aritmetico, ma il momento in cui sorge il desiderio "di sottoporsi a un'iniziazione tramite la lettura"; o l'attenta segnalazione dei saggi sul tardoantico di Peter Brown con le loro innovazioni metodologiche e storiografiche. Il tutto in uno stile brioso, a tratti arbasiniano: come quando evoca la categoria del transgender a proposito degli usi postumi delle Lettere di Cicerone.
Dino Piovan
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