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Un libro apolitico, dal quale emerge soprattutto un grande senso di umanità. Al cuore della trattazione, infatti, non stanno gli ideali del rivoluzionario, bensì i sentimenti del prigioniero, i suoi dolori, le sue speranze, il suo attaccamento alla vita. Dispiace contraddire quanto riportato nella recensione di Piero Giombi, ma non corrisponde al vero il fatto che Pellico nel 1848 abbracciò la causa austriaca. Rimase sempre un patriota (si narra infatti che pianse alla notizia della sconfitta piemontese a Novara!), ma dopo il suo ritorno in Piemonte scelse di non impegnarsi più politicamente.
E' il classico libro che è stato mal interpretato. Fu scritto su consiglio del confessore di Pellico e autorizzato dalla censura per dimostrare come un liberale (che all'epoca era sinonimo di "sovversivo) nella sofferenza della prigionia avesse ritrovato la Fede Cattolica. Invece, proprio per la mancanza di ostilità verso i suoi aguzzini, venne interpretato come un'oggettiva descrizione della malvagità degli Austriaci. In realtà, nel 1848 Silvio Pellico fu dalla parte degli Austriaci. Una curiosità: leggendo questo libro come lettura scolastica, il futuro Vittorio Emanuele III proruppe in tali esclamazioni di ostilità all'Austria che il suo precettore dovette richiamarlo all'ordine e ricordargli che ora l'Italia e l'Austria erano alleate nella "Triplice Alleanza".
Un libro di altissima dignità morale. Il sapore 'romantico' dello stile del primo ottocento non infastidisce e si sposa benissimo con la sincera conversione e l'amore fraterno che mantiene in vita il Pellico durante i suoi 9 anni di carcere duro. Il patriota arriva a ritenere "giusta" la detenzione per i suoi trascorsi da carbonaro. E' un libro che dovrebbero leggere i nostri uomini politici, spesso vittimisti davanti alla giustizia anche quando sono colpevoli: Pellico soffrì davvero e ingiustamente, senza inveire una sola volta contro i suoi detentori.
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