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Verità e interpretazione - Donald Davidson - copertina

Dettagli

1994
28 gennaio 1994
416 p.
9788815042347

Voce della critica


recensione di Santambrogio, M., L'Indice 1994, n.10

Ci sono due grandi temi che percorrono la filosofia del Novecento e sembrano, ma non lo sono, indipendenti. Sono il linguaggio e la verità. Con la "svolta linguistica", la filosofia ha trovato il modo di riformulare tutti i suoi problemi tradizionali come se riguardassero direttamente o indirettamente il linguaggio. Dal problema ontologico al problema degli universali, dal dualismo cartesiano al problema dell'intenzionalità - le grandi questioni della storia della filosofia trovano così una nuova presentazione. Certo, in filosofia non si può mai parlare di soluzioni definitive, ma la filosofia analitica, che si caratterizza grosso modo come quel modo di filosofare che ha cercato di sviluppare sistematicamente le conseguenze della svolta linguistica, ci ha fatto fare grandi progressi nella comprensione di tutte quelle questioni.
Ora però il compito più urgente per il filosofo è quello di capire meglio come funziona il linguaggio stesso. Dobbiamo ad esempio sapere che tipo di conoscenze deve avere un parlante per capirne un altro, che tipo di rapporto abbiano le parole con le cose, se esista una "forma logica" e così via. Se disponessimo di buone risposte per questi interrogativi, sarebbe facile tra l'altro costruire macchine che parlano; in realtà ne siamo ancora molto lontani. Tempo fa Carlo Viano ebbe a sostenere che ciò che oggi sappiamo del linguaggio non è molto di più di quello che poteva saperne un qualunque dotto medievale. Credo che Viano avesse torto; è vero però che mentre siamo ragionevolmente sicuri di quale sia la forma generale ad esempio della scienza fisica (anche se non possiamo affatto sapere quale sia la teoria fisica vera), non abbiamo invece idee altrettanto chiare per quel che riguarda la forma generale che dovranno assumere le teorie del significato linguistico. Il secondo tema, la verità, è sempre stato centrale per i filosofi. Ma per il nostro secolo sembra che sia divenuto drammatico, con la "scoperta" che esistono molte teorie per spiegare gli stessi fenomeni, che la nostra conoscenza dipende dai modi di organizzare l'esperienza e cioè dagli schemi concettuali che usiamo, e che non può esistere un unico schema. Di qui l'impressione che l'idea di verità, con i suoi tradizionali caratteri di unicità e di assolutezza, sia divenuta inservibile o richieda comunque profonde revisioni. Il filosofo contemporaneo che ha fatto forse più di ogni altro per chiarire i rapporti tra questi due temi (e per demolire il relativismo concettuale) è Donald Davidson. Esce ora dal Mulino il suo "Verità e interpretazione", che raccoglie una ventina di saggi, dal 1964 al 1981, alcuni dei quali sono ormai dei veri classici e hanno dato luogo a una letteratura imponente (in queste stesse settimane sono usciti altri due volumi, "Sopprimere la lontananza uccide" di Davide Sparti, La Nuova Italia, e "Davidson et la philosophie du langage" di Pascal Engel, Puf).
Cercherò ora di esporre per sommi capi la tesi centrale di Davidson circa la forma generale che dovrà assumere la spiegazione del funzionamento di una qualunque lingua naturale. Tale spiegazione dovrà essere in primo luogo una teoria del significato per quella lingua e cioè una teoria tale che chiunque la conosca sia per ciò stesso in grado di capire i parlanti di quella lingua. Naturalmente, perché la teoria non sia circolare e quindi inservibile, essa dovrà essere applicabile alla lingua in questione senza far uso di concetti specificamente linguistici propri di quella lingua (non potremo cioè supporre di sapere che cosa sia un enunciato o il senso di un termine o un'asserzione in quella lingua).
In secondo luogo, una tale teoria dovrà dirci, per ogni enunciato della lingua in questione, a quali condizioni quell'enunciato sia vero. Questa è evidentemente una condizione necessaria per capire i parlanti di essa: non potremmo certo sostenere di sapere il francese se non sapessimo che l'enunciato "La neige est bianche" è vero in francese se e solo se la neve è bianca. Né potremmo sostenere di saperlo se non riconoscessimo le conseguenze logiche di un enunciato - ad esempio, se non sapessimo che da "Giuseppe è scapolo" e da "Nessuno scapolo è sposato" segue "Giuseppe non è sposato". E la nozione di conseguenza logica - si osservi - è definita nei termini della nozione di verità.
Ma, in terzo luogo, Davidson ha sostenuto che una teoria della verità per una data lingua è tutto ciò di cui dobbiamo disporre per avere anche una teoria del significato per la stessa lingua. Una teoria della verità non è altro che una teoria che sistematicamente e quindi a partire da un numero finito di principi ci dà le condizioni di verità per ciascun enunciato di quella lingua. Supponiamo di sapere che "Le silence est d'or" è vero in francese se e solo se il silenzio è d'oro, che "L'Azur triomphe" è vero in francese se e solo se l'Azzurro trionfa, é così via per ogni altro enunciato di quella lingua: c'è forse qualcosa che ancora ci manca per poter capire qualunque cosa dicano i francesi? Su questa domanda e le sue inaspettate conseguenze si arrovellano da anni i filosofi analitici. (Si osservi che se il compito dei filosofi è quello di produrre teorie del significato così concepite, allora è facile cogliere la distanza che li separa da quei linguisti, come Chomsky, che si disinteressano del tutto della verità e delle altre nozioni semantiche).
Ma questo modo di mettere le cose per quel che riguarda il linguaggio non significa precisamente incorrere nella fallacia di credere che le parole possano essere messe direttamente a confronto con la realtà, e quindi ignorare che prima di poter operare un tale confronto, dobbiamo già aver scelto uno schema concettuale o un paradigma, per usare il termine di Kuhn? Se capisco bene, è proprio questo che sostengono (ma senza entrare direttamente in polemica con Davidson) gli ermeneutici. Prima della verità pensata come corrispondenza o conformità, ha scritto ad esempio Gianni Vattimo, dobbiamo postulare una nozione di verità diversa, pensata secondo la metafora dell'abitare, e precisare il tratto che è comune a ogni abitare: "il suo inserirsi non in uno spazio naturale pensato in fondo come spazio astratto, geometrico, ma in un paesaggio segnato da una tradizione". Di nuovo, "tradizione" è solo un altro modo di chiamare uno schema concettuale. La risposta di Davidson è molto articolata e piuttosto convincente. In primo luogo, non bisogna credere che una teoria del significato, con i suoi infiniti teoremi della forma '"...' è vero se e solo se..." - dove i puntini possono essere rimpiazzati da ciascun enunciato della lingua in questione - stabilisca le condizioni di verità di ciascun enunciato in isolamento dagli altri. L'unità minima del significato è l'intero linguaggio. Non è possibile quindi capire un solo enunciato, ad esempio del francese: per capirne uno dobbiamo capirne almeno implicitamente infiniti altri. Ma soprattutto, sostiene Davidson, il dualismo implicito nell'idea di uno schema concettuale, tra lo schema e qualcosa che potremmo chiamare il contenuto, "non può essere difeso, n‚ compreso". Possiamo pensare che gli schemi concettuali organizzino qualcosa come il flusso dell'esperienza; oppure che si conformino con la realtà o l'esperienza. Ma la prima metafora non ha un senso preciso e per quanto riguarda la seconda, l'idea di conformità all'esperienza nel suo complesso non aggiunge nulla di intelligibile al semplice concetto di essere vero. Ora possiamo in effetti pensare l'esistenza di schemi concettuali diversi sul modello dell'esistenza di lingue diverse, che tutte descrivono la realtà o si conformano soddisfacentemente all'esperienza, eppure sono reciprocamente intraducibili. Ma "conformarsi soddisfacentemente all'esperienza" significa semplicemente essere in larga misura veri. E allora dobbiamo chiederci: "fino a che punto riusciamo a comprendere la nozione di verità, applicata al linguaggio, indipendentemente dalla nozione di traduzione?" La risposta di Davidson è che non possiamo affatto farlo e quindi non riusciamo veramente a capire l'idea che possano esistere linguaggi diversi, tutti accettabili eppure intraducibili l'uno nell'altro. Le discussioni e gli interrogativi sollevati da queste riflessioni sono davvero molti. Ma una cosa appare chiara, a giudizio di chi scrive: è dai filosofi che lavorano nel solco della filosofia analitica che dobbiamo attenderci i progressi più significativi nella comprensione dei meccanismi linguistici fondamentali, perché essi in genere hanno ben presenti le teorizzazioni dei filosofi non analitici, ma raramente vale l'inverso.

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