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Lo sterro - Andrej Platonov - copertina
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Lo sterro - Andrej Platonov - copertina
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Descrizione


Dal fango di un grande cantiere, dove un gruppo di manovali è impegnato nello scavo delle fondamenta per la costruzione della futura "casa proletaria comune" e dalle misere isbe di paglia e argilla della campagna russa emerge la tragedia di un popolo disperatamente teso a coniugare verità, giustizia e felicità, valori fondamentali di una lunga tradizione culturale, tragicamente deformata da chi pensava di sostituirsi ad essa.
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Lo sterro

Dettagli

1993
384 p.
9788831757072

Voce della critica


recensione di Di Sora, D., L'Indice 1994, n. 1

Parlando di Andrej Platonov e della sua prosa, Iosif Brodskij sottolinea l'esistenza di crimini che non si possono perdonare senza commettere altri crimini, e afferma: "Bruciare i libri, in fondo, è semplicemente un gesto, non pubblicarli è una falsificazione del tempo". È il tempo da falsificare, di cui non lasciare memoria che non fosse edulcorata e corrotta, era uno dei più grandiosi e terribili della storia del paese. Nel racconto "Kotlovan* (Lo sterro) siamo nel 1929, l'anno della grande svolta: una manciata di mesi prima, nel dicembre del 1927, è stata abbandonata la Nuova politica economica, e con lei ogni tentativo di ritorno all'iniziativa privata. Stalin ha deciso di trasformare l'Urss in un paese industrializzato, e le direttive del primo piano quinquennale (1928-32) impongono di "raggiungere e superare" i paesi capitalisti. Al Plenum del Comitato centrale dell'aprile di quel 1929 viene sconfitta la destra di Bucharin, e approvata la collettivizzazione forzata delle campagne. La lotta contro i 'kulaki', contadini ricchi, si fa particolarmente agguerrita e sanguinosa, e alla fine di quello stesso anno viene lanciata la parola d'ordine dell'eliminazione del 'kulak' come classe. Sono questi i punti di riferimento necessari a capire lo sfondo storico e geografico (la campagna) in cui si muovono i personaggi e le emozioni: il contadino dagli occhi gialli, l'attivista e i suoi aiutanti, "il cui volto esprimeva un unico ferreo sentimento: l'impegno dell'abnegazione", il presidente del soviet rurale, la donna, l'invalido e tutta la folla di personaggi che fa di "Kotlovan* una straordinaria narrazione polifonica. Immerso in un'atmosfera mortuaria quasi languida, avviluppante, "affinché tutti potessero avvertire la solennità della morte, nel radioso momento che stava realizzando la collettivizzazione della proprietà". Scritto quasi in presa diretta, contemporaneo agli avvenimenti che narra, tra il dicembre 1929 e l'aprile 1930, il racconto non è certo una cronaca di questi avvenimenti, ma il tentativo di fissare sulla carta la brulicante vita di quegli anni, la realtà nel suo svolgersi, con le sue contraddizioni, le sue tensioni, la sua paura ma anche, in qualche caso, la sua tensione ideale. Il tutto partendo da una metafora centrale la costruzione di un edificio, la "casa proletaria comune", alle cui fondamenta, lo sterro appunto, tutti sono chiamati a lavorare. Ma lo scavo non conosce confini, si fa via via più largo e più profondo: "Tutti, da ogni baracca e isba d'argilla, dovranno trovare posto nella nostra casa". Da questa metafora centrale se ne dipartono altre, l'orso martellatore che partecipa alla spedizione contro i 'kulaki', ma che poi non riesce a fermarsi, e continua a far baccano, Nastja, la bambina, che dovrà abitare la casa comune, mostriciattolo saputello, "uomo nuovo" che parla a slogan e che ha una "coscienza di classe" che si confonde con la crudeltà dei bambini.
Attenzione però a non ridurre tutto a un gioco di rimandi metaforici, i livelli di lettura sono numerosi e giustamente mette in guardia il curatore e traduttore del volume, Ivan Verc, sulle difficoltà di stabilire il genere di questo racconto, arrivando cautamente a definirlo in negativo: non è un racconto utopico, o antiutopico, non appartiene al genere grottesco. Piuttosto è una rappresentazione del mondo nella sua totalità, la verifica disperata di una speranza iniziale. Voscev, il protagonista, nel giorno in cui compie trent'anni viene licenziato dall'officina meccanica in cui lavora, e si mette in cammino per conoscere la verità, "il senso della vita". E il libro è il resoconto di questo viaggio, le tappe e gli incontri dell'eroe, un 'cudak', un bislacco, come tutti i personaggi di Platonov. Lo consuma il desiderio di conoscere il vero peso delle cose, la loro essenza, di capire il perché della vita e della morte, di conservare la memoria di tutto, in modo che nulla sia stato inutile. Vuole "estrarre la verità dalla polvere della terra". E anche il suo fermarsi allo sterro, "il maestoso scavo", non scioglie l'incertezza, le ultime pagine diventano sempre più dense di un'impotenza che tocca il culmine con la morte della bambina Nastja: "A che scopo gli serviva ora il senso della vita e la verità sull'origine di tutte le cose, se non c'era più quel piccolo e fedele essere umano, dove la verità si sarebbe fatta gioia e movimento?" È dunque in definitiva la cronaca di un fallimento annunciato questo viaggio ("e se fosse solo un nemico di classe, questa verità?"). Sono passati dieci anni dagli avvenimenti di Cevengur, il villaggio della nuova vita, dove gli abitanti hanno tentato di realizzare il comunismo, ma di nuovo la costruzione di una felicità futura è subordinata alla necessità di uccidere, di sterminare i nemici; la collettivizzazione, la nuova frontiera dell'utopia, è un altro sogno sanguinoso. A impastare sogno e realtà sfuggente, a definire le cose, i personaggi, le atmosfere, provvede la magica lingua platonoviana magistralmente definita da Brodskij in una pagina famosa: "A leggere Platonov si ha il senso della spietata, implacabile assurdità insita nel linguaggio, si scopre che a ogni nuova enunciazione - da chiunque provenga - quell'assurdità si fa più profonda. E che non c'è modo di uscire da quel vicolo cieco se non ripiegando nel linguaggio stesso da cui si è partiti". Ne "Lo sterro" i personaggi si muovono dentro un universo linguistico che avvolge tutto, la lingua di quell'utopia, l'unica che avesse la possibilità di definire quella realtà non solo descrivendola ma ricreandola, e che è costituita da un amalgama di parole d'ordine, brandelli di slogan, citazioni della propaganda ufficiale, termini scientifici, formule politiche, direttive; un lessico la cui assurdità ingigantisce nel momento stesso in cui viene fissato sulla carta e non usato per definire una situazione o un personaggio, ma si infiltra dappertutto, modella tutto, perché era il solo possibile in quegli anni. E rende nello stesso tempo quasi disperato ogni tentativo di traduzione: il traduttore qui onestamente avverte di aver ritenuto doverosa "una scelta... per quanto possibile di tipo 'semantico'e non semplicemente 'comunicativo'". Spentosi in disperata miseria, nel 1951, di tubercolosi contratta accudendo il figlio malato, Andrej Platonov somiglia a uno degli inquieti esseri dei suoi romanzi, che accettano di andarsene dal mondo con assoluta naturalezza perché consapevoli dell'irrealtà della morte, partecipi e convinti di una futura resurrezione, dal momento che il fine ultimo della scienza e del pensiero non può essere altro che la vittoria sulla Morte, l'unica, vera rivoluzione di tutti gli esseri viventi. Utopia, questa, mutuata dalle idee di Nikolaj Fedorov: affascinante e sorprendente filosofo della fine del XIX secolo, che proclama la necessità di utilizzare la scienza per lottate contro la decomposizione delle molecole, per richiamarle in vita, in modo che la terra restituisca quello che ha inghiottito nel corso dei secoli, e tornino in vita i padri, tutti i padri di tutti i secoli, via via fino al progenitore primo, perché l'umanità ha il dovere di sconfiggere la morte, ricomponendo e restituendo quanto è andato disperso. E ogni eroe platonoviano, ogni personaggio, anzi, ogni oggetto, ogni filo d'erba è veicolo di questa inquietante e grandiosa fantasia, gli alberi, le foglie, gli astri, tutto un universo antropomorfo partecipa a questa ricerca, insieme all'uomo, e ne condivide il destino finale.
Persino i libri dello scrittore sembrano obbedire a un fantastico ordine di resurrezione, non vogliono accettare la scomparsa, l'annullamento e tornano dalla non esistenza del non pubblicato con caparbietà: scritti tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, sono rifiutati ostinatamente da tutte le case editrici, con l'avallo di Gor'kij che scriveva all'autore: "Che lo voglia o no, lei ha dato all'esposizione della realtà un carattere lirico-satirico... Nonostante la grande tenerezza con cui dipinge i suoi uomini, lei li colora tuttavia di ironia, ed essi appaiono ai lettori non tanto come dei rivoluzionari, quanto come dei 'bislacchi', dei 'mezzimatti'... E questo, si capisce, è inaccettabile per la nostra censura". Pubblicati all'estero a partire dalla fine degli anni sessanta, tornano in patria solo nel corso della breve primavera gorbacioviana: tra il 1986 e il 1988 escono sulle pagine di importanti riviste, nell'allora Unione Sovietica, "Il mare della giovinezza" ("Znamia", n. 6/86), "Kotlovan* ("Novyj mir", n. 6/87) e finalmente "Cevengur" ("Druzba narodov", nn. 34/88), per poi confluire in libro nello stesso anno: "Juvenil'noe more" (Il mare della giovinezza), Moskva 1988. Ma anche le traduzioni hanno vita inquieta: "Cevengur" esce da Mondadori nel 1972 con il titolo "Il villaggio della nuova vita", traduzione di M. Olsufieva, per riapparire nella stessa traduzione, nel 1990, da Theoria, come "Da un villaggio in memoria del futuro; Juvenil'noe more", annunciato e, presumibilmente, pubblicato da Adelphi nel 1982, è scomparso anche dal catalogo generale, ma viene tradotto da e/o nel 1989; "Kotlovan*, infine, esce con il titolo "Nel grande cantiere", Il Saggiatore, 1969, nella traduzione di M. Olsufieva, più accessibile ma meno platonoviana, e viene ora riproposto come "Lo sterro" nell'aspra, a tratti laboriosa, ma appassionata traduzione di Ivan Verc, che ci trascina dentro l'epoca anche attraverso un sontuoso apparato di note.

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Conosci l'autore

Andrej Platonov

1899, Jamskaja Sloboda (Voronez)

Andrej Platonovic Platonov nasce nel 1899 a Jamskaja Sloboda, un sobborgo di Voronez; il padre è operaio alle ferrovie. Per mantenere la famiglia numerosa si adatta a ogni tipo di lavoro, ma non abbandona gli studi né la passione per la letteratura. Nel 1920 aderisce al Partito comunista ma l'anno seguente restituisce la tessera. Con la qualifica di ingegnere viene destinato a opere di bonifica nella campagna remota dove, soprattutto di notte, scrive i suoi primi racconti. Dilaniato tra l'amore per il suo lavoro di tecnico e la passione per la scrittura, entrambi strumenti per contribuire all'edificazione della nuova società nella quale crede, continua a comporre opere che avranno sempre problemi con la censura. Nel 1931 la pubblicazione del racconto A buon pro provoca...

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