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La scienza è cambiata assieme alla società e deve comunicare (anche con i mezzi di massa), oltre a trovare "un patto con la società civile, la tecnologia, il mercato", etc. massimamente nel contesto della privatizzazione e globalizzazione di taluni fattori strutturali (peraltro col rischio della "conoscenza a contratto"). Dalla seconda guerra mondiale è cambiato tutto nella storia della scienza e "anche la produzione del vero è frutto di negoziazione sociale", il contesto "condiziona il ruolo dell'informazione nella policy e nella politica" (Pielke). La novità sta anche nel dialogo tra gruppi di esperti e di non esperti ,dove anche la politica si fa in spazi diversi da quelli classici e istituzionali (sub-politiche ibride per U.Beck). Per cui negli ultimi anni emergono "metafore centrate su bidirezionalità e interazione, su dialogo, coinvolgimento e consapevolezza". Il comunicatore della scienza "non deve limitarsi a spiegare scoperte, narrare fatti, trasmettere concetti" ma "scovare e raccontare anche i come (epistemologici, organizzativi) e i perchè (economici, politici) della scienza in azione. "Non deve solo essere un entusiasta, curioso cronista della ricerca, ma anche (..) un watchdog, un cane da guardia pronto a dare l'allarme quanto qualcosa non funziona - o non è trasparente - nel complicato intreccio fra scienza, potere politico e poteri economici".
Un libro molto interessante, ma forse un po' ambiguo. Gli autori parlano di come si è evoluta e di come si configura ai nostri giorni la comunicazione dell’impresa scientifica, nel duplice ruolo di informazione su quello che succede nei laboratori, e di dialogo più generale tra scienziati e politici della scienza da una parte e società dall’altra. In estrema sintesi, si parla della crisi del vecchio “modello lineare” di divulgazione, in cui si presupponeva un pubblico sostanzialmente indifferenziato e poco istruito sui fatti scientifici, pubblico da educare attraverso un’opera di semplificazione (ma non necessariamente di banalizzazione) prima, e poi di progressivo avvicinamento ai temi più specialistici e più complessi poi. Tale modello forse è fallito, ma personalmente lo ritengo ancora valido. Il problema di quella che è chiamata alfabetizzazione scientifica non è certo stato risolto, tutt’altro; e non saranno certo gli assemblearismi evocati nel libro che potranno portare ad un rapporto migliore tra società e scienza, che comunque ha un suo linguaggio peculiare che va prima in qualche modo acquisito e digerito. Forzando un po’ il discorso vorrei poi proprio vedere come si fa a discutere, in comitati aperti alla cittadinanza, sulla fisica del bosone di Higgs, o su aspetti particolari della selezione naturale sulla forma e funzione delle ali dei pipistrelli. Se la scienza, dovesse essere decisa in base a criteri di utilità sociale “hic et nunc”, forse non sarebbe mai partita la costruzione del nuovo acceleratore LHC del CERN, forse si sarebbero già chiusi tutti i dipartimenti di paleontologia del mondo… L’ambiguità sta proprio qui: è auspicata la “democratizzazione” della scienza oppure questa è di fatto già data? Non penso che le culture “altre” abbiano un granché da dire alla scienza: sono riflessi di postmodernismo ingenui e pericolosi. Perché di certo, piaccia o non piaccia a qualcuno, la scienza è uno dei cardini della modernità, e metterla sotto attacco significa attaccare la modernità stessa.
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