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il mio giudizio su questo libro è negativo per i seguenti motivi: 1. il libro è essenzialmente dedicato al "perché uscire dalla società dei consumi", quindi chi come me compra il libro già convinto del "perché" ma sperando di trovarvi delle riflessioni sul "come" rimane deluso 2. il modello sostitutivo proposto come "utopia costruttiva", "alternativa felice" mi sembra affrontato in modo ideologico, velleitario e superficiale: abolire l'economia, tornare ad una società di agricoltura contadina ecc. ecc. Una società ideale basata sul "dare" e sulla "generosità". Ma dove mai si è realizzata su vasta scala una simile società? Qualche esempio che la storia ci non può essere preso ad esempio,. Infatti Latouche fa riferimento a regole/leggi per imporre la sua "utopia". Ma noi volenti o nolenti, viviamo in una società globalizzata in cui però, per fortuna, non esiste un governo globale che possa imporre regole globali 3. il modello che Latouche propone come obiettivo ideale da raggiungere mi sembra quello che inevitabilmente si realizzerà in modo traumatico, drammatico e doloroso se non si troverà una trasformazione gestita verso un diverso modello socio-economico, quindi la leva su cui bisognerebbe puntare non è la "generosità" umana, ma l'"egoismo" ovvero la consapevolezza collettiva che se si vuol evitare di dover affrontare (noi e/o i nostri figli) un futuro molto oscuro è necessario trovare e gestire delle soluzioni che implichino anche delle parziali rinunce e redistribuzione di ricchezza in cambio di un ambiente vivibile sul piano ecologico e sociale 4. mi sembra che l'alternativa alla società dei consumi non sia la "decrescita", ma sostituire il concetto di "investimento" al concetto di "consumo", cosa che una buona politica potrebbe fare anche su scala (relativamente) locale, trasformando la necessità in opportunità. Certo, bisogna fare i conti con i cosiddetti "poteri forti", con le multinazionali, ma a che serve la politica se non a questo?
Recensioni
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Nel libro L’occidentalizzazione del mondo (1989), Serge Latouche scriveva che il rullo compressore dello sviluppo del mondo occidentale spiana tutto solo in apparenza, ma lascia sepolte sotto terra le radici delle culture schiacciate. Le radici dei popoli indigeni, le storie, le etnie e le culture che nell’Ottocento Emiliano Zapata rivendicava come ancora integre e non strappate dai coloni spagnoli, sono alla base di questo nuovo sforzo teorico del fondatore del “Movimento per la decrescita”. Il «risveglio degli indigeni», la ripresa del movimento autoctono nel continente americano a partire dalla fine degli anni Sessanta rappresentano, secondo Latouche, i segnali del nuovo corso della decrescita e indicano la via per uscire dalla società dei consumi.
Il ragionamento di Latouche parte dalle riflessioni del suo Breve trattato sulla decrescita serena (2008) e in queste pagine recupera le esperienze del Chiapas zapatista, della Bolivia di Morales e dell’Ecuador di Correa, come primi tentativi di invertire la rotta dell’economia mondiale. Nel Chiapas del subcomandante Marcos, una regione grande quanto il Belgio, dal 1994 e per la prima volta da cinque secoli, i popoli indigeni di oltre sessanta etnie diverse si sono trovati fianco a fianco per governare le comunità autonome sotto il loro controllo. In Bolivia nel 2008, l’ex piantatore di coca indiano Evo Morales, eletto presidente del Paese, ha fondato la prima Università dei saperi indigeni, ha riconosciuto la natura come soggetto di diritto nella Costituzione dichiarando l’acqua e la terra come beni comuni, elementi vitali per gli esseri umani. Rendere patrimoni inalienabili, accessibili a tutti, non privatizzabili queste risorse naturali rappresenta agli occhi di Latouche una grande sfida alle compagnie minerarie straniere che mirano allo sfruttamento delle ricchezze naturali, il modello di un’alternativa possibile alla società dei consumi illimitati. Così anche in Ecuador, Rafael Correa, meticcio di lingua quechua e primo presidente indigeno del Paese dal 2007, ha adottato una nuova Costituzione che si pone come obiettivo non il più alto Pil pro capite possibile, ma il raggiungimento dell’ideale indigeno del sumak kausai, espressione che in quechua significa «ben vivere». È a partire dai valori espressi da queste politiche che Latouche disegna il suo percorso per «uscire dall’impasse», verso un futuro possibile al di là della catastrofe produttivista e della fine dello sviluppo imposto dalle economie neoliberiste.
Per uscire da quello che Latouche definisce il «delirio produttivista» ci vuole anche una piccola rivoluzione semantica: la «rottura delle parole», mai neutrali e sempre invece funzionali agli interessi economici, è un primo passo per «decolonizzare l’immaginario» dello sviluppo a tutti i costi. Ovviamente non è sufficiente. Segue, nella seconda parte del saggio, l’esame della «via della felicità», vale a dire la proposta di una economia basata sullo spirito del dono e della condivisione, che ponga rimedio alla miseria del presente. Il quadro è quello della necessità di una fuoriuscita radicale dall’attuale assetto della globalizzazione, in un cammino di ricostruzione ambientale e sociale preparato anche da una nuova educazione, secondo il messaggio del filosofo libertario Ivan Illich. La proposta di Latouche, che si rifà anche alle intuizioni feconde del precursore della decrescita, Cornelius Castoriadis, è quella di approfittare della crisi finanziaria in atto per superarla in modo positivo, costruendo una società di «opulenza frugale della decrescita».
Un libro che ha il coraggio di scuotere l’opinione pubblica, che sfiora l’utopia ma che rappresenta al tempo stesso un’etica e un progetto politico, aprendo una pluralità di percorsi possibili per uscire dalla crisi.
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