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Rolf Wörsdörfer è uno storico tedesco specializzato in storia dell'alto Adriatico e dell'Europa sudorientale. Viene ora tradotto in Italia uno dei suoi libri più recenti, dedicato alle vicende della regione di confine tra l'Italia e l'ex Jugoslavia nel Novecento. E al centro del saggio c'è il problema della nazione e dell'identità nazionale in prospettiva comparata. Il metodo di Wörsdörfer si fonda cioè sull'osservazione in parallelo dei modi in cui si sono formate nel tempo le identità nazionali sulle due rive dell'Adriatico. Identità che egli riassume nelle categorie di "italianità" e "jugoslovenstvo": quest'ultima a indicare il progetto, portato avanti da Belgrado nel periodo monarchico come in quello socialista, di compattare all'insegna di un unico nation building identità regionali fortemente distinte (e oggi dotate di fisionomia statale autonoma, segno evidente del fallimento di quel progetto).
Il presupposto da cui muove il saggio è che l'area di confine in cui questi fattori identitari nazionali si sono incontrati e scontrati è il punto privilegiato per esaminare gli sforzi dei rispettivi centri politici, Roma e Belgrado, volti a radicare i processi speculari di nazionalizzazione sul territorio da essi amministrato. In scia alla tradizione di studi sulla "nuova politica" di George Mosse e alle canoniche intuizioni di Eric Hobsbawm sul carattere "inventato" delle nazioni, l'assioma di fondo è che l'identità nazionale sia un elemento artificiale costruito nel tempo, effetto e insieme motore dei processi di modernizzazione dell'età contemporanea, nonché criterio di definizione del sé e dell'altro attraverso pratiche di esclusione o di assimilazione. Pratiche governate da una logica mononazionale, tendenti a porre l'appartenenza nazionale a perno dell'identità politica. E che divengono politiche statali al momento in cui il nazionalismo si fa ideologia di stato, trasformandosi in principio ordinatore della cittadinanza grazie a una saldatura tra concetto tedesco di popolo e centralizzazione amministrativa alla francese (come notato da Wörsdörfer sulla scorta di Holm Sundhaussen).
L'ottica generale che ispira il libro, quindi, non è tanto quella della storia politica e diplomatica (come pure potrebbe far pensare il titolo italiano), ma semmai quella della storia culturale, sebbene nella narrazione l'autore cerchi di stabilire un equilibrio tra le due dimensioni. Da qui discende la periodizzazione osservata: il 1915 come avvio di quell'esperienza di massa "totale" che fu la prima guerra mondiale, con l'accelerazione da una parte e dall'altra delle dinamiche di nazionalizzazione, e il 1955 come termine cronologico di un percorso storico di semplificazione etnico-nazionale di un territorio da questo punto di vista plurale e frammisto.
Se si dà per scontato, come accade di solito in questi lavori, che lo scopo per cui la nazione è stata "inventata" rinvia a esigenze di controllo e mobilitazione sociale avvertite da uno o più poteri precostituiti, resta da vedere chi o cosa l'abbia costruita in concreto e come. E in questo, come per altri aspetti, il libro di Wörsdörfer non offre molto di originale. Gli agenti primari della nazionalizzazione infatti sono individuati in quel variegato universo associativo e formativo scandagliato dalla storiografia europea negli ultimi vent'anni, paese per paese, ed esaminato anche per il caso del confine orientale italiano in precedenti lavori effettuati da storici sia italiani sia dell'ex Jugoslavia.
In effetti, malgrado la robusta ricerca archivistica svolta dall'autore in Italia e all'estero, i risultati cui egli arriva nel complesso non aggiungono acquisizioni di rilievo a un quadro conoscitivo delineato da tempo. Ciò, come detto, sia per quanto riguarda i primi tre capitoli, incentrati sulle esperienze di nazionalizzazione dalla fine dell'Ottocento alla seconda guerra mondiale, anni in particolare che vedono l'istituzionalizzarsi del nazionalismo assimilazionista italiano nella dittatura fascista, con esiti drammatici per le minoranze slave in Italia; sia per quanto riguarda l'ultimo capitolo (il quinto), che prende in considerazione l'esodo di massa degli italiani dai territori dell'Adriatico orientale, vittime nel dopoguerra dell'oppressione sociale e nazionale del regime comunista di Tito.
Malgrado non manchino nel testo analisi puntuali (si veda per esempio il capitolo quarto, su "guerra partigiana e nazionalizzazione", attento a ben valutare il peso della questione nazionale nel movimento di resistenza sloveno e croato), l'originalità e il valore dell'opera risiedono piuttosto nel metodo proposto, ossia nella lettura programmaticamente comparata degli oggetti d'indagine secondo un modello di histoire croisée che fatica a farsi strada nelle storiografie dei paesi interessati.
Patrick Karlsen
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