L'urgenza politica di una "figura", concettualmente e materialmente, tanto elusiva almeno quanto diffusa come quella del confine appare difficilmente contestabile. Riferimento ubiquo, stretto tra la indepassabile fisicità della sua consistenza e la volatilità della sua (pur inaggirabile) istituzione discorsiva, il confine è ciò che decide oggi delle condizioni globali della mobilità e dello scambio di cose e persone e, dunque, anche, del desiderio e della frustrazione (e troppo spesso della vita e della morte) di queste ultime. Il libro scritto a quattro mani da Sandro Mezzadra e Brett Neilson (pubblicato originariamente in inglese, un anno fa, con il titolo Border as Method, or, the Multiplication of Labor, presso Duke University Press) è un'opera monumentale che affronta il confine secondo un'illuminazione tanto singolare da essere difficilmente riducibile al pur generoso menù di opzioni teoriche che sociologia, scienza politica, etnografia e filosofia hanno in questi anni allestito. Al confine pertiene un carattere essenzialmente anfibio: esso, operando demarcazioni, allo stesso tempo separa e unisce. I gradi variabili, e artatamente variati, della sua permeabilità ne indicano il ruolo genuinamente produttivo: come sostengono Mezzadra e Neilson il confine non è altro che l'operatore strategico della fabrica mundi. Produttivo, dunque; ma anche proliferante: l'aumento dei confini è infatti vertiginoso. Non solo: all'aumento esponenziale dei confini si accompagna un mutamento saliente quanto alla loro natura. Da elementi, alla lettera, "marginali", essi assumono una funzione vieppiù "centrale": istituendoli sub specie liminare tagliano e scombinano spazi che, geopoliticamente, non coincidono più con quella che fu la "frontiera". Questa produzione dello spazio di confine aldilà, e a dispetto, delle mappe (fisiche e politiche, si sarebbe detto a scuola) ha a che fare, e non estrinsecamente, con i soggetti che il confine lo abitano, attestando materialmente di quella incessante pulsazione tra attraversamento e rafforzamento che, costituendolo, non smette di disfarlo. Alla proliferazione dei confini fa dunque da contraltare una panoplia di arti dell'attraversamento, che Mezzadra e Neilson interpretano sotto il segno di una politica della traduzione. In questo caso, dunque, il confine non si riduce al muro. Quest'ultimo è in fondo, come ha spiegato Wendy Brown, piuttosto un sintomo, o un fantasma, di sovranità malconce: allorché il confine è il dispositivo che allo stesso tempo articola e regola soggetti e poteri, capitale e resistenza. Il confine, in altre parole, si emancipa dallo statuto di "oggetto" o "tema" per divenire, del libro, il vero e proprio metodo. Il vertice ottico a partire dal quale srotolare un'analitica cocciuta (perché abbondantemente nutrita di etnografia) del globale, all'altezza di una crescente sofisticazione dei modi e delle forme dell'inclusione. Non esaurito dalle astuzie della ragione geopolitica, non "confinato" secondo le usate, e ormai frustre, geometrie statual-nazionali, il confine è la macchina che articola, e dunque (almeno in linea di principio) non ostacola, flussi e passaggi di merci e di viventi. È perciò che esso chiama in causa le metamorfosi del rapporto sociale di capitale che stanno ristrutturando da cima a fondo l'esperienza che ci fa soggetti nel mondo globale. Quella di Mezzadra e Neilson non può dunque che essere, conseguentemente (e in non peloso omaggio a una lezione operaista che circola, per nulla polverosa, lungo tutte le pagine del libro), un'analisi della composizione del lavoro vivo. Il confine è insomma quella soglia che occorre frequentare quando si sia deciso di parlare sensatamente di politica e di forme di vita oggi. Non è un caso che l'esito estremo del libro avvii una delle più sofisticate riflessioni che si siano lette sullo statuto del "comune". Quest'ultimo incarna la riserva di immaginario e di pratica politica capace di contrappuntare la formidabile triangolazione che lega l'eterogeneizzazione dello spazio globale, la moltiplicazione del lavoro e la proliferazione dei confini. Il nesso che li stringe è niente altro che il motore della governamentalità contemporanea; le pratiche di traduzione del comune ne costituiscono il più mondano degli esorcismi: quello capace di articolare le lotte senza smettere di produrre soggettività. Un programma, questo, che non può non urtare con il congegno che, per il tempo lungo della modernità, ha "sopportato" la tenuta del rapporto tra confine e lavoro: la cittadinanza. Dispositivo dell'inclusione differenziale e dell'esclusione per eccellenza, la cittadinanza intrattiene con il confine un rapporto elettivo. Proprio come quella, nel tempo dello stato-nazione, così questo, nel tempo della globalizzazione, connette e divide, istituisce rapporti e forme di socialità: lo fa in nome e per conto del capitale, certo; ma così facendo apre nuovi e inauditi spazi di lotta, emancipati dal quadro, simbolico e materiale, della statualità. Non si tratta di pensare a un rovesciamento dialettico, ma a una nuova forma della politica: quella che il confine fatto metodo addita e insieme impone. Le politiche della traduzione, l'"indirizzo eterolinguale" custodito dal comune sfidano, attraverso i confini, a "ordinare" l'eterogeneità senza tradirla. Michele Spanò
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