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Anno edizione: 2018
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ZOLA, EMILE, La fortuna dei Rougon, Garzanti, 1992
ZOLA, EMILE, La conquista di Plassans, Garzanti, 1993
recensione di Ceserani, R., L'Indice 1993, n.11
La comparsa, nella collana garzantiana dei "Grandi libri", di due romanzi di Èmile Zola, rispettivamente il primo e il quarto del ciclo dei Rougon-Macquart, "La fortuna dei Rougon* nel 1992 e "La conquista di Plassans" nel 1993, in una traduzione firmata dal filologo classico e storico delle idee e dei movimenti intellettuali Sebastiano Timpanaro, è un avvenimento. E tuttavia, nonostante le apparenze, non credo che l'incontro fra Zola e Timpanaro sia una sorpresa assoluta. Le ragioni di un tale incontro, che può apparire nonconformistico e controcorrente, sono qua e là adombrate negli scritti prefatori (non "saggi critici", si affretta a dire l'autore) che Timpanaro dedica, a corredo della scrupolosa e flessibilissima traduzione qua e là sostenuta da note esplicative, ai lettori dei due romanzi, integrando il profilo storico-critico di Lanfranco Binni che, nella collana, accompagna tutti i romanzi di Zola.
Una ragione è del tutto personale: Timpanaro confessa di essere sempre stato un "appassionato lettore" di Zola. Egli cioè è di quelli, e non sono pochi nel mondo, che non si accontentano di leggere alcuni romanzi isolati, i più noti e famosi, ma che leggono Zola per cicli interi, e quindi non solo il ciclo in venti volumi dei Rougon-Macquart, ma anche i successivi: "Le tre città" e l'incompleto "I quattro vangeli" (e infatti, per le sue traduzioni è andato a pescare fra i romanzi meno noti, e nel caso di "La fortuna dei Rougon*, un romanzo mai tradotto da noi nel Novecento).
Un'altra ragione mi pare che si possa identificare con un interesse ideologico e filosofico. Il Timpanaro laico e materialista, marxista di fede scientifica, avverso a tutti i facili idealismi e riformismi, nemico intransigente di tutti i compromessi, pessimista-leopardiano (come si è una volta definito con un po' di ironia), revisore ostinato e lucido di tante banalità della storia intellettuale del nostro Ottocento, trova istintivamente, nell'opera di Zola, pane per i suoi denti. Il profilo che ne viene fuori, demistificando tanti luoghi comuni, è quello non certo di un marxista, ma neppure di un riformista borghese. Zola, ricorda Timpanaro, odiava cordialmente, tenacemente, la borghesia, in tutte le sue forme. I suoi interessi scientifici e naturalistici possono apparire ingenui e dilettanteschi, ma erano accompagnati da una solida, istintiva capacità di analisi sociale in profondo. Zola era, insomma, anche lui, un po' marxista-leopardiano. "Oggi - scrive Timpanaro -, senza ridicole pretese di sostenere che Zola, col suo pessimismo, aveva visto più giusto dei marxisti, c'è da chiedersi se quel pessimismo non contenesse qualcosa di vero (io, con buona pace degli esaltatori dell'odierna 'civiltà occidentale', me lo chiedo con amarezza): poiché quello che si suol chiamare il fallimento delle previsioni marxiste non è dovuto a un giudizio troppo negativo da parte di Marx e di Engels, sulla borghesia capitalistica, ma ad un'impossibilità dei proletari, tranne pochi momenti eroici ma fugaci, di superare il proprio stato di subalternità, di autogovernarsi". Una terza ragione dell'incontro fra Timpanaro e Zola sta, credo, nella volontà di inserirsi in un processo di revisione critica, anche dal punto di vista dei valori letterari. Zola, come è noto, mentre godette con i suoi romanzi di un immenso successo di pubblico, incontrò molte riserve, già in vita, da parte dei critici, sia di quelli su posizioni più decisamente moderate e tradizionaliste, sia di quelli su posizioni progressive. Fra gli appunti che gli venivano mossi erano la scarsa cultura personale, la dipendenza da dottrine e filosofie - sull'uomo, la malattia mentale, l'evoluzione, l'ereditarietà - assunte in modo passivo; il cattivo gusto che lo portava a occuparsi di ambienti sociali degradati, personalità corrotte e rovinate dall'alcol; la qualità ridondante della scrittura.
Le critiche più severe e persistenti vennero dal campo marxista e culminarono nel giudizio di György Luk cs, che contrappose nettamente il realismo pieno di Balzac al descrittivismo superficiale di Zola e sostenne che Zola, nonostante la sincerità delle sue battaglie ideologiche e politiche, rimase vittima dell'evoluzione sociale del suo tempo e della nuova situazione dello scrittore: uno scrittore che non viveva più e non combatteva più le grandi battaglie della sua epoca e si era degradato a semplice spettatore e a grande cronista della vita pubblica.
Una svolta nelle posizioni critiche si è avuta soltanto negli ultimi due o tre decenni, quando le questioni ideologiche trattate nei romanzi di Zola sono state rivisitate alla luce delle nuove scienze sociali e le sue storie sono state lette come "storie", penetranti rappresentazioni non delle idee del tempo, ma delle ossessioni, delle passioni, dei sogni di un vasto immaginario individuale e sociale. Alcuni studiosi (fra cui Deleuze) hanno persino rivalutato le intuizioni di tipo scientifico di Zola. Molti critici hanno rivalutato le sue straordinarie capacità come narratore, creatore di trame e di storie. Molti hanno cominciato a parlare di qualità "simboliche" e di qualità "mitiche" del suo realismo, o naturalismo. Il mito di cui hanno parlato variamente i critici delle nuove scuole (da Gaston Bachelard a Jean Borie, da Michel Serres a Roger Ripoll, da Auguste Dezalay a David Baguley, da M. Dentan a Jacques Noiray) ha dimensioni conoscitive assai più profonde, non è un puro armamentario letterario o allegorico, è invece antropologicamente e storicamente fondato; è modo conoscitivo e rappresentativo per dar forma alle grandi forze che animavano l'universo sociale e animano quello romanzesco di Zola: la natura, la terra, il destino, il ciclo delle stagioni e delle età umane, l'eredità, il capitale, il male, il progresso, la macchina. Non pochi studiosi hanno, anzi, letto i romanzi di Zola come le proiezioni narrative e mitiche di alcune grandi immagini del sapere ottocentesco: Michel Serres li ha riletti mettendoli in rapporto con le teorie sull'ipnosi di Charcot; Gilles Deleuze li ha riletti mettendoli in rapporto con le teorie dell'eredità dello stesso Charcot; De Lattre li ha riletti mettendo in rapporto i procedimenti di Zola con quelli di Darwin e Claude Bernard, sottolineando lo stesso "modo di vedere il mondo e di metterlo in prospettiva", "per trovare l'uomo sotto l'uomo e, sotto ciascuno dei suoi desideri, l'intero mondo dei suoi sogni".
L'interpretazione di Timpanaro, condotta con le armi del traduttore ma anche con quelle del critico, si colloca dentro questa vasta operazione di revisione del gusto e dei giudizi. Vi si colloca in modo autonomo e originale, prendendo le distanze da molta della "nuova critica" di moda, preferendo appoggiarsi all'opera paziente di ricostruttore del lavoro di osservatore del mondo e scrittore di storie compiuta da Henri Mitterand. E tuttavia ha anch'essa una forte carica di revisione degli antichi pregiudizi.
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